/

Morire in carcere a 25 anni

1 min read

 
carcere1Tratto da: Isola Possibile n.59, Gennaio 2009, Renato Camarda: Quando la morte non basta
Si chiamava Gianluca Di Mauro. Aveva solo 25 anni. La sera del 15 dicembre 2008 è stato trovato impiccato nella sua cella, nel carcere di alta sicurezza di Bicocca.
Accusato di cinque rapine, era stato arrestato la prima volta a 19 anni. Una vita segnata la sua, con i postumi di un terribile incidente stradale, la tossicodipendenza, le crisi epilettiche.
All’inizio del 2008 aveva denunciato di essere stato violentato dal suo compagno di cella, fisicamente più forte di lui. Fu questo particolare a fare confondere, anche sui giornali, la sua con un’altra storia di violenza sessuale in carcere, denunciata qualche tempo prima – ma non all’autorità giudiziaria – dall’avvocato Antonio Fiumefreddo e smentita dal garante dei diritti per i detenuti Salvo Fleres.
Gianluca, però, a differenza del protagonista della storia di Fiumefreddo, non era mafioso e nemmeno gay.
” L’omosessualità qui non c’entra nulla – dice il suo avvocato, Eleonora Baratta – Gianluca non era omosessuale e ha invece denunciato penalmente un abuso subìto. Non si tratta di avere pregiudizi ma di difendere l’identità del giovane. L’ho difeso quando era vivo e se c’è da difenderlo da morto non smetto”.
La storia di Gianluca è un’altra. A perderlo è il suo amore per una ragazza, una tossica, che lui vuole salvare. Finisce per drogarsi anche lui. Da qui le rapine, l’arresto, la condanna a 13 anni.
Alla fine del 2007 al Pagliarelli, il carcere di Palermo, si trova coinvolto in una storia di cellulari introdotti illegalmente in carcere. Viene trasferito all’Ucciardone dove subisce l’abuso sessuale. L’avvocato Baratta che lo difende da allora, ne parla come un ragazzo dal “cuore d’oro” e non si spiega il suicidio.
” Per me questo è uno dei momenti più brutti della mia storia professionale – dice – Ho lottato tanto per questo ragazzo. Poco prima di morire mi aveva inviato una lettera. Mi salutava, mi diceva che mi voleva bene e mi dava appuntamento a presto. L’udienza sarebbe stata due giorni dopo. Che senso aveva non aspettarne l’esito? Forse attraversava un brutto momento. Certo, in cinque anni di carcere di sfiducia ne aveva accumulata tanta. Ora, con i genitori, attendo l’esito delle indagini”.

Lascia un commento

Your email address will not be published.

Gli ultimi articoli - Giustizia