“Dall’analisi del fenomeno mafioso alla cittadinanza attiva” è il titolo della undicesima edizione dei seminari d’Ateneo intitolati a Giambattista Scidà, aperti – nel pomeriggio di lunedì 20 gennaio – dal confronto tra il saggista Antonio Fisichella e Isaia Sales, docente di “Storia delle mafie” all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, sul tema “Le mafie oggi: i loro affari e la zona grigia”.
Organizzati con alcune associazioni della società civile impegnate nel territorio sulle tematiche che riguardano, a diversi livelli, la legalità e il contrasto alla mafia, i Seminari di Ateneo sono aperti alla partecipazione di studentesse e studenti iscritti a tutti i corsi di studio dell’Università di Catania oltre che “a membri di associazioni della società civile, insegnanti di scuola di ogni ordine e grado, cittadine e cittadini impegnati nel mondo del volontariato e comunque interessati”. Ed in effetti, l’uditorio del primo incontro era composto prevalentemente da giovani studenti universitari, ma con una nutrita partecipazione di cittadini di varie età.
La storia delle mafie in Italia – ha esordito Sales – viene spesso presentata come distinta e separata dalle vicende che hanno portato alla costituzione e allo sviluppo del Paese, ma è invece ad esse strettamente connessa, e le sue numerose trasformazioni si intrecciano con i mutamenti sociali, politici ed economici nazionali. Senza questa connessione tra le due “storie”- ha affermato il professore, rivolgendosi in particolare al pubblico più giovane – sarebbe pressoché impossibile comprendere il successo acquisito e mantenuto fino ad oggi dalle mafie.
Un’altra tesi che Sales ha voluto smontare è l’idea, a suo parere erronea, che la genesi delle tre mafie italiane, pur avendo radice nelle debolezze del Regno Borbonico, derivi da situazioni di sottosviluppo. Ha evidenziato, piuttosto, come il fenomeno sia sorto, in specie per Camorra e Cosa Nostra siciliana, nelle “capitali” del Regno e nelle loro province, e sia stato spinto soprattutto da una economia florida e dalla ricchezza incentrata sul latifondo. Non a caso altre regioni meridionali più depresse sono rimaste estranee allo sviluppo di organizzazioni mafiose.
Altrettanto fallace è – a suo parere – l’attribuzione alle “culture” locali di una predisposizione all’omertà, alla sudditanza e al cosiddetto “familismo amorale”. Sebbene noi stessi siamo propensi talora a credere che ci sia una innata “indole”, che porta taluni strati sociali a sentirsi lontani dall’interesse pubblico, tale forma di distacco deve essere considerata una conseguenza e non una concausa del fenomeno mafioso: l’omertà e l’accettazione passiva sono il risultato della paura e non un sostegno maturato per motivi culturali. In altri termini, si tende a dimenticare l’effetto del radicamento plurisecolare delle mafie, che si sono consolidate nella storia nazionale e che hanno “cementato” nel tempo il loro condizionamento sociale in termini di soggezione, nonostante che i costumi siano profondamente cambiati nel Paese.
Dopo l’Unità d’Italia sarebbe stato nelle possibilità del nuovo Stato azzerare il potere mafioso. Esso fu invece incentivato, utilizzandolo come strumento per garantire la difesa della proprietà privata e delegando ad esso il controllo del territorio, contro il brigantaggio, le ruberie e soprattutto contro le rivendicazioni sociali dei contadini, ai quali venne negata una efficace riforma agraria fino al secondo dopoguerra. Le commistioni con la politica, inizialmente perfino palesi e pubbliche, sono seguite senza interruzioni, sia pure ridimensionate e nascoste.
Le mafie, infatti, non hanno rappresentato un ostacolo al lento imporsi dello Stato sui territori, non hanno contrastato il sistema, non hanno avuto interesse ad abbatterlo; per questo motivo, contrariamente ad altri fenomeni, come il terrorismo politico, non sono state oggetto di un autentico, radicale contrasto per molti anni.
Nello stesso tempo, ha chiarito ai giovani il professor Sales, le mafie non sono state un impedimento alla crescita economica e tuttora non lo sono: i furti e le rapine hanno la conseguenza di “spostare” il denaro, e le organizzazioni criminali mafiose “producono” in certo qual modo ricchezza, riciclando i proventi e investendo. Negli anni del secondo dopoguerra hanno concentrato le attività nel settore edilizio, stravolgendo il territorio in complicità con la politica locale, successivamente hanno investito anche in iniziative di carattere industriale.
E tutto questo senza una attenta valutazione delle conseguenze da parte di chi si è occupato di Economia. Al contrario, è emblematico che dal 2014 l’Unione Europea consenta ai Paesi membri di inserire nel calcolo del PIL il volume d’affari derivante da attività illecite come la vendita di droga, la prostituzione e il contrabbando di sigarette e di alcol.
Particolarmente rilevanti sono apparse le osservazioni di Sales sulla assenza di una compiuta descrizione del fenomeno mafioso nei testi di studio italiani, nonostante che esso abbia acquisito una importanza sostanziale e nonostante che tutte le implicazioni e interessenze con la storia “ufficiale” della nazione siano note. Risulta mancante perfino una mera descrizione del fenomeno in termini di rilevanza criminale. Altrove le narrazioni sui conflitti interni protrattisi nei singoli paesi fanno parte dei programmi di storia nelle scuole: ad esempio in Spagna (separatismo basco) e in Gran Bretagna (lotta civile tra unionisti e separatisti), queste narrazioni sono state affrontate, sebbene i morti siano stati inferiori a mille unità. Non avviene lo stesso in Italia, sebbene si stimi che le mafie siano responsabili, sin dalle loro origini, di diverse decine di migliaia di omicidi.
Questo vale, in particolar modo, per i manuali in uso nelle scuole, dove un completo ed esaustivo racconto storiografico di quel che le mafie sono state e sono non è ancora presente.