Torniamo on line, in una nuova veste grafica, con un contributo di Antonio Fisichella sulla vicenda giudiziaria di Raffaele Lombardo, non ancora approdata ad una sentenza definitiva, ma da cui emerge con chiarezza il ruolo da lui svolto nel blocco politico-affaristico-criminale che domina la città.
E’ notizia di questi giorni: la Procura generale di Catania ha impugnato in Cassazione la sentenza con la quale la prima sezione della Corte d’appello, nel gennaio scorso, ha assolto Raffaele Lombardo dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa (perché il fatto non sussiste”) e da quella di reato elettorale aggravato dall’aver favorito la mafia (“per non aver commesso il fatto”).
Non sono bastati tre processi e tre diverse sentenze per porre un punto fermo in una interminabile vicenda giudiziaria.
Il primo processo celebrato con rito abbreviato, febbraio 2014, condanna l’ex presidente della Regione a sei anni e otto mesi di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa e corruzione elettorale. Nel marzo 2017 la terza sezione della Corte d’appello di Catania lo assolve dal reato più grave, il concorso esterno, e lo condanna a due anni per corruzione elettorale aggravata dal metodo mafioso. Nel luglio 2018 il verdetto sarà però annullato con rinvio, dalla Corte di Cassazione per manifesta illogicità. Il pronunciamento della suprema Corte renderà necessario il secondo processo d’appello che, come abbiamo visto, si concluderà con la piena assoluzione dell’ex presidente della Regione.
Il recente ricorso in Cassazione rimette tutto in discussione. Il processo dunque si riapre. Vanno nel congelatore gli entusiasmi con cui una vastissima parte del ceto politico aveva salutato l’assoluzione e lo stesso Lombardo vede protrarsi quel lungo “calvario” del quale si dice vittima innocente. Calvario che in tutti questi anni non gli ha impedito di tessere le fila della politica catanese e di conquistare un posto di primo piano, insieme ai condannati per mafia Cuffaro e Dell’Utri, nell’elezione a presidente della Regione di Renato Schifani, un uomo politico che a sua volta ama circondarsi di compagnie quantomeno discutibili.
Forse sul piano giudiziario Lombardo ne uscirà assolto. E forse no. Ma nessuna sentenza, anche la più mite, potrà cancellare le sue responsabilità morali per aver alimentato il sistema politico- affaristico – criminale. È quanto ricostruiscono sul piano dei fatti, tutte e tre le sentenze, quelle che lo condannano e quelle che lo assolvono.
Esse, al di là dei diversi esiti giudiziari cui giungono, su un punto dirimente concordano: l’esistenza di relazioni, legami e rapporti tra Raffaele Lombardo e i livelli apicali di Cosa Nostra, tra il fratello Angelo, deputato regionale e parlamentare nazionale del Movimento per l’Autonomia, e la criminalità mafiosa catanese in diverse e numerose circostanze che i giudici sintetizzano in quattro grandi “aree tematiche”.
La vicenda Safab s.p.a., impresa romana impegnata nella realizzazione di importanti appalti in Sicilia (assai generosa, tramite la concessione di subappalti, verso ditte mafiose), interessata alla realizzazione, del villaggio per i militari americani a Lentini.
I legami tra Lombardo, Bevilacqua Raffaele capomafia di Enna e Francesco La Rocca boss di Caltagirone, condannato all’ergastolo e recentemente scomparso.
Le relazioni tra l’imputato e Rosario Di Dio, esponente di spicco della famiglia Santapaola di Ramacca e quelle con l’imprenditore Mario Incarbone, legato alla famiglia Santapaola Ercolano, già condannato per mafia, nonché militante e finanziatore del Movimento per l’autonomia.
La realizzazione centri commerciali Centro Sicilia, Mito (mai nato) e Porte di Catania la cui realizzazione vede l’interessamento dell’ex governatore, il sovrapporsi degli interessi della famiglia Ercolano- Santapaola e quelli dell’editore Mario Ciancio, attualmente sotto processo per concorso esterno in associazione mafiosa.
Forse in un’aula giudiziaria tutto questo non è sufficiente per condannarlo. E forse la stessa lunga traiettoria politica di Lombardo non può essere contenuta in aula di tribunale. Essa travalica la dimensione giudiziaria perché appartiene alla storia della città e alla biografia delle sue classi dirigenti.
Lombardo è stato – dopo la cesura degli anni ’90 – il più abile e convinto restauratore del blocco di potere cittadino, di quel “modello Catania” fondato sulla rendita parassitaria, le plusvalenze dei suoli, il controllo della spesa pubblica e il drenaggio di enormi risorse verso il ciclo del cemento, aperto, per sua natura, alla partecipazione della mafia. Non è certo la criminalità mafiosa a creare il sistema Lombardo, non ne rappresenta la parte preponderante, ma allo stesso tempo costituisce una sorta di zoccolo duro a cui il politico di Grammichele mostra di non voler rinunciare.
L’ex governatore, in forza di una non comune capacità di movimento e di un carisma da tutti riconosciuto, sarebbe in grado di vincere a prescindere dall’apporto della criminalità mafiosa. Eppure questa si muove in suo favore ed egli stesso ne ricerca l’appoggio. Le carte dei processi Lombardo in essenza questo ci dicono: la mafia catanese, mafia imprenditrice per eccellenza, è parte integrante del blocco di potere cittadino. Il sistema Lombardo e il mondo mafioso catanese sono destinati inevitabilmente ad incontrarsi. Sono due facce della stessa medaglia.
In un Paese normale i fatti già accertati, senza attendere una qualsiasi sentenza, sarebbero più che sufficienti per condannare almeno all’oblio un politico alla Lombardo. Un sistema politico appena decente lo metterebbe alla berlina, lo isolerebbe e lo espellerebbe da sé. Purtroppo non è così. È un copione che si ripete, uguale a sé stesso. E’ l’equivoco cui i garantisti farisei ricorrono per nascondere le responsabilità delle nostre classi dirigenti.
Lo diceva Paolo Borsellino: «L’equivoco su cui spesso si gioca è questo: si dice “quel politico era vicino ad un mafioso”, “quel politico è stato accusato di avere interessi convergenti con le organizzazioni mafiose, però la magistratura non lo ha condannato, quindi quel politico è un uomo onesto”. E no! Questo ragionamento non va, perché la magistratura può fare soltanto un accertamento di carattere giudiziale, può dire: “beh… ci sono sospetti, ci sono sospetti anche gravi, ma io non ho la certezza giuridica, giudiziaria, che mi consente di dire quest’uomo è mafioso”. Però, siccome dalle indagini sono emersi tanti fatti del genere, altri organi, altri poteri, cioè i politici, le organizzazioni disciplinari delle varie amministrazioni, i consigli comunali o quello che sia, dovevano trarre le dovute conseguenze da certe vicinanze tra politici e mafiosi, che non costituivano reato ma rendevano comunque il politico inaffidabile nella gestione della cosa pubblica».
C’è almeno una lezione che possiamo imparare da questa vicenda: smetterla di delegare solo alla magistratura la lotta alla mafia. Verità giudiziaria e verità storica nei complessi rapporti tra affari, politica e mafia spesso divergono, come mondi paralleli. A noi tocca leggere i fatti, collegarli gli uni altri e dare battaglia aperta nella società, nelle scuole, nelle aule universitarie, tra la gente. Per non più accontentarsi di una semplice sentenza.
Nelle scuole ? E come? L’educazione antimafia è tramontata …quella alla legalità tramortita..l’educazione civica soporifera..i magistrati vanno nei licei per fare salotto e presentare i loro libri…La scuola è fuori discussione…Il sacrificio della patria nostra è consumato..tutto è perduto