Aziende, proprietà immobiliari, risorse finanziarie: i sequestri e le confische dei beni appartenenti a famiglie mafiose crescono, tanto che si prospetta l’ipotesi di esportare il modello della confisca ad altri tipi di reato.
Sulla carta sembrerebbe che la legge Rognoni-La Torre (646/1982), che introdusse nel codice penale il reato di “associazione di tipo mafioso” e la previsione di misure patrimoniali applicabili all’accumulazione illecita di capitali, sia vincente.
Purtroppo, c’è qualcosa che non va: la maggior parte dei beni confiscati rimangono inutilizzati, abbandonati al degrado, le aziende non riescono a stare sul mercato, le risorse finanziarie confluiscono nel Fondo per la Giustizia, disperse tra mille altri introiti.
Non è un discorso nuovo, si considerano questi beni quasi un costo per lo Stato, di cui liberarsi mettendoli in vendita; generando così amarezza, rassegnazione e – quel che è più grave – sfiducia nelle Istituzioni.
A ridare centralità a questo tema, a Catania, sono state le iniziative di cittadini, giovani e meno giovani, che hanno voluto rendersi conto dello stato di alcuni beni confiscati messi a bando e hanno finito con lo scoperchiare criticità ancor più gravi di quelle immaginate.
Parliamo di Arci e Siciliani Giovani, che – come abbiamo già raccontato – hanno verificato che alcuni beni, confiscati sulla carta e addirittura messi a bando per l’assegnazione, erano di fatto ancora nelle disponibilità dei mafiosi a cui erano stati confiscati, come la villa di Gravina ancora abitata dalla famiglia Zuccaro o l’azienda agricola di contrada Alcovia, i cui raccolti erano sfruttati da chi avrebbe dovuto piangerne la confisca.
Al monitoraggio hanno partecipato altre associazioni, come l’Asaec Libero Grassi e l’AIAB, trovando supporto istituzionale nella Commissione Regionale Antimafia e nel suo presidente, Claudio Fava.
Per dare un seguito a questa esperienza, Arci e Siciliani Giovani hanno avviato, con il sostegno di Geotrans e Banca Etica, una iniziativa itinerante denominata Le scarpe dell’antimafia, prendendo contatti e andando a conoscere dal vivo diverse realtà impegnate nella gestione dei beni confiscati in vari centri dell’isola.
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Domenica 7 ottobre, nel Giardino di Scidà, bene confiscato e assegnato ai Siciliani Giovani, si è svolta una assemblea pubblica per tirare le somme di quest’iniziativa.
In realtà, al di là della citazione di alcune situazioni paradossali, si è parlato poco del tour e delle esperienze con cui i nostri ‘viaggiatori’ sono entrati in contatto.
Sono riemerse, invece, con forza, le questioni essenziali, le responsabilità dell’Agenzia, delle prefetture, degli amministratori giudiziari e dei coadiutori, tutti soggetti con responsabilità istituzionale ma spesso poco competenti e poco coraggiosi nello svolgerei il proprio ruolo.
Gravissimo il silenzio della politica, che mai ha messo questo tema al centro della propria attenzione, quasi fosse un problema secondario, come se questi beni e queste risorse finanziarie non potessero e dovessero divenire una fonte di ricchezza, di lavoro, di emancipazione per tutta l’isola e in particolare per le frange più fragili della popolazione.
Qualcosa adesso comincia a muoversi con una proposta di legge regionale presentata da Claudio Fava, un’indagine avviata dalla Procura, la volontà delle associazioni di proseguire in questo cammino, che non vuole solo essere conoscitivo ma anche propositivo.
In un momento in cui la mafia ha scelto di agire in sordina, evitando di esporsi con gesti eclatanti e insinuandosi sempre di più, silenziosamente, nel tessuto economico e sociale, è molto importante non abbassare la guardia e continuare una battaglia per dare continuità alla intuizione di Pio La Torre e per restituire alla società civile quella ricchezza di cui la mafia l’ha espropriata.