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Stato e Regioni nella gestione della pandemia

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Proseguendo nella riflessione già iniziata, Ettore Palazzolo, costituzionalista, ci propone alcune considerazioni che possono essere preparatorie anche all’incontro sulle autonomie differenziate previsto per martedì 8 giugno dall’Associazione Memoria e Futuro

La tutela della salute nel nostro ordinamento è materia di competenza concorrente, spettando allo Stato fissare per legge i principi ed alle Regioni la legislazione di dettaglio

La profilassi internazionale è, invece, di stretta spettanza dello Stato (art. 117, 2° c. lett. q), Cost.), in modo da assicurare una risposta unitaria e uniforme in tutto il territorio nazionale.

In primo luogo va stigmatizzata l’assenza, o comunque il mancato aggiornamento, di Piani regionali anti–pandemie, talvolta rimasti nel cassetto degli Assessorati, come in Sicilia, nel quadro dell’assenza di un Piano pandemico dell’intero Stato (l’ultimo risalente al lontano 2006).

L’impressione è che, non solo il Governo, ma soprattutto le Regioni non abbiano fatto tutto quello che ad essi spettava, rientrando nei rispettivi compiti istituzionali, e scaricando sui cittadini, con la chiusura di gran parte delle attività non essenziali (ovvero non solo bar e ristoranti, ma anche scuole, teatri, cinema, palestre, ecc.) la responsabilità di arginare la pandemia.

La politica delle chiusure (e dei parziali lockdown), articolatasi nelle differenti colorazioni (gialla, arancione e rossa) attribuite a seconda dell’incidenza dei contagi, ha costituito uno dei motivi di maggiore conflittualità fra Stato e Regioni.

Soprattutto la chiusura di scuole e Università, perché non si è stati capaci di trovare una soluzione decente per il trasporto locale, è stato un atto di notevole gravità. Se poi aggiungiamo la chiusura di cinema, teatri e biblioteche, si è davvero raggiunto il colmo.

E la responsabilità sta tutta in capo alle Regioni, le quali non sono state in grado di spendere neanche le risorse che lo Stato aveva, a tale scopo, messo a disposizione.

Ẻ mancata pure, sempre per responsabilità delle Regioni, la riorganizzazione dell’assistenza sanitaria di base, allo scopo di evitare l’intasamento dei pronto soccorso; la diagnosi rapida, mediante tampone, da estendere ad un numero elevato di persone, accompagnata dall’organizzazione di un sistema di tracciamento del contagio; per non parlare della tutela rafforzata delle persone a rischio, particolarmente gli anziani e segnatamente i degenti nelle RSA.

Ci sono stati mesi di tempo per provvedere, ma ben poco è stato fatto. E tutto ciò chiama in causa oltre allo Stato, nei suoi poteri di indirizzo e controllo, in primo luogo le Regioni.

E proprio nelle Regioni economicamente più sviluppate (Lombardia e Piemonte) si sono palesate le più gravi carenze. Particolarmente in Lombardia, la cui sanità, è basata su un abnorme sviluppo del settore ospedaliero rispetto alla medicina di base e del territorio, nonché alla prevenzione; con un notevole potenziamento del settore privato (o delle convenzioni privato/pubblico) rispetto a quello pubblico, ed una gestione politico-amministrativa del settore Sanità alquanto carente.

Per non assumersi una serie di responsabilità, alcune Regioni hanno preferito che fosse lo Stato a prendere le decisioni considerate impopolari (lockdown, ecc.), salvo lamentarsene dopo accusando il Governo di essere prevaricatore nei riguardi delle competenze regionali.

Non si vogliono certo sottacere le responsabilità dello Stato centrale. La logica aziendalistica imposta alla sanità, con politiche dei tagli, i vincoli di compatibilità imposti dall’Unione europea, la previsione di un largo spazio alle concessioni ai privati, lasciate poi proliferare fuori controllo da molte delle Regioni. Per non parlare dell’utilizzo alquanto “parsimonioso” dei poteri statali di sostituzione di funzioni o apparati regionali, previsti espressamente dalla Costituzione.

A partire da ottobre dell’anno scorso, vi è stata un’escalation dei contagi (e dei morti) con la seconda e poi, da metà febbraio, la terza ondata del virus, dovuta anche al manifestarsi di “mutazioni” del virus, in forme più aggressive, che ha portato il nostro Paese ad essere primo in Europa per contagi.

Il disastroso avvio del Piano di vaccinazione è solo un’altra delle questioni del contenzioso Stato/Regioni. A parte le responsabilità delle Case farmaceutiche, e dell’Unione europea, c’è stato, soprattutto, il problema del riparto delle quote vaccinali fra le Regioni ed all’interno delle singole Regioni, nonostante la nomina, da parte del Governo, di un Commissario alla vaccinazione, nella persona del generale Figliuolo.

Le Regioni hanno iniziato a somministrare il vaccino, ciascuna con proprie regole e priorità, privilegiando determinate categorie, rispetto agli anziani e ai più fragili.

E nonostante che la somministrazione dei vaccini, oltre che interesse della collettività, rientri nell’ambito dei diritti fondamentali, il che richiederebbe una gestione uniforme e unitaria all’interno del territorio nazionale. Ma è allora ammissibile che vi siano stati ben 21 diversi Piani vaccinali? E sono risultate del tutto chiare ed univoche le direttive del Commissario?

Coronavirus

Il paradosso risiede nel fatto che sono state proprio le Regioni più inadempienti, quanto al piano di vaccinazione, ad insistere per la riapertura dalle restrizioni, accusando il Governo di essere solo disposto alle chiusure e di danneggiare così le attività produttive.

L’impressione è che oggi (maggio 2021) ci si trovi di fronte ad un mezzo fallimento, senza, peraltro, che i responsabili, Stato e Regioni, dicano o facciano qualcosa per assumersi la responsabilità degli errori commessi.

Vi sono però alcune conclusioni da trarre:

  • è necessario ripensare nuovamente il riparto delle competenze Stato-Regioni in materia di sanità, in modo da ridare maggiore spazio al ruolo dello Stato che può garantire una maggiore uniformità e quindi una migliore tutela del diritto fondamentale della salute, superando il rischio di tentazioni particolaristiche e clientelari.
  • è necessario riorganizzare il sistema sanitario nazionale (o anche i sistemi sanitari territoriali?) in modo che vi sia la possibilità di affrontare eventi emergenziali; a tale scopo è necessario che vengano predisposti appositi ed articolati piani d’emergenza per le diverse calamità – ad es. un Piano pandemico nazionale e i relativi Piani regionali – anche le meno probabili;
  • occorre poi una forte rete territoriale di medicina di base, per far fronte a future emergenze (vedi il problema di una campagna nazionale di vaccinazioni) ma anche attrezzata ad affrontare un possibile tracciamento di eventuali focolai di epidemie future;
  • è necessario, infine, reperire a tale scopo nuove risorse finanziarie, ripensando all’ordine delle priorità.

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