In un momento difficile come quello che viviamo può sembrare superfluo discutere di democrazia e informazione, anche perché si potrebbe pensare che il ruolo della “libera” stampa sia ormai una certezza salda del nostro sistema sociale non meno che delle nostre coscienze.
Eppure che la questione sia meno limpida di come appare a prima vista, lo dimostra il recente, interessante dibattito organizzato su questo tema dalla Associazione Memoria e Futuro.
Sotto la guida di Giorgio Mannino nella veste di moderatore, Maria Grazia Mazzola, inviata di Rai 1, Primo Di Nicola, senatore, e Attilio Bolzoni, inviato di Repubblica ed oggi collaboratore di “Domani”, si sono confrontati in un dibattito di rara compostezza e, per certi versi, drammaticità .
Mazzola ha sottolineato con forza che quella dell’informazione è una “emergenza in corso”, ulteriormente aggravata dagli effetti della pandemia e dalla esigenza di limitare, edulcorare, controllare l’informazione ed il sapere che sempre più si affermano nella nostra realtà “tecnologica”.
La frequenza con cui i giornalisti d’inchiesta vengono uccisi mentre fanno il loro lavoro, oppure ostacolati o isolati, ne è una drammatica testimonianza.
Purtroppo non si tratta di esagerazioni: Maria Grazia Mazzola, una giornalista che lavora nel servizio pubblico, che dovrebbe essere un ambiente privilegiato per libertà e trasparenza, testimonia con la propria esperienza lavorativa il crescente isolamento e le difficoltà che incontra chi pretende di fare il proprio lavoro in modo veramente indipendente, chi dice cose che dovrebbero essere pudicamente taciute.
Ad esempio la parola “mafia”- e non solo in Puglia, Calabria o Sicilia – fa ancora paura principalmente a chi gestisce un giornale o un telegiornale (anche nel servizio pubblico) tanto che, se non riesce a mettere a tacere il giornalista, lo isola e svuota di contenuti il suo lavoro. Il che, se si vuole, è un altro modo di raggiungere l’obiettivo.
Mazzola ricorda, fra i molti che si potrebbero citare, il caso drammatico di Dafne Caruana Galizia uccisa a Malta platealmente per avere scoperto con le sue inchieste le collusioni fra malaffare e politica. Dopo avere puntualmente ed ampiamente descritto l’evento, sul “fatto” è calato il silenzio.
Ma questo è solo un aspetto del problema.
Richiesto di informare sul cammino del progetto di legge di cui è firmatario, il senatore Di Nicola ha confermato che tale progetto è fermo dal 2017. Si tratta di una importante legge che punisce chi intraprende delle ‘liti temerarie‘ ovvero quei procedimenti giudiziari che sono palesemente infondati e mirano spesso a dissuadere un giornalista o una testata dall’intraprendere un’inchiesta, dall’approfondire un problema scottante.
Non è una questione marginale. Di fronte ad una inchiesta che faccia emergere lo spessore di realtà criminali che sono divenute ormai endemiche in ogni regione d’Italia, spesso si sceglie il silenzio. Si cerca in particolare di coprire non solo il ruolo della mafia nella società, nel mondo economico ma anche il peso che ha assunto in territori che si ritengono tradizionalmente, e a torto, estranei al sistema mafioso.
Di Nicola ha confermato, con la sua esperienza di giornalista prima che di politico, che la proposta di legge con cui si vorrebbe punire severamente chi intentasse delle ‘liti temerarie’ è ancora bloccata in un pantano, ben lontana dalla calendarizzazione.
Inoltre mentre le grandi aziende, per non parlare dei clan della criminalità organizzata oppure, perché no?, dei politici, riescono a gestire un processo molto a lungo, anzi, talora sfuggono così alle conseguenze della sentenza evitando con la prescrizione la condanna penale e le sue conseguenze, lo stesso non accade a tutti gli altri.
Chi deve difendersi da una lite temeraria è costretto a mettere in discussione tutta la propria vita, senza neanche la certezza di continuare ad avere le risorse economiche necessarie per una simile battaglia.
E’ una situazione, insomma, che rischia di mandare allo sfacelo la vita di qualunque professionista onesto che viva del proprio lavoro, per tacere del fatto che la prospettiva di avere un giornalista che possa costare all’azienda fior di quattrini può diminuire significativamente le possibilità, per chi ha fatto l’inchiesta, di trovare lavoro nel futuro.
E’ noto come sia proprio nel silenzio che cresce la potenza mafiosa e come sia solo l’informazione ad essere il suo naturale antidoto ma se l’informazione deve esercitare il suo ruolo solo timidamente concentrandosi sul folclore piuttosto che sulle ragioni degli eventi criminali è altrettanto ovvio che si tratta di un antidoto di scarsa efficacia.
Attilio Bolzoni ha evidenziato le crescenti difficoltà che incontra un giornalista non solo nel lavoro d’inchiesta ma anche nei rapporti con la redazione e la proprietà, che può dare più o meno spazio al suo lavoro e che, quando un articolo è troppo duro, ha mille modi per ostacolarne l’uscita.
Nell’orgia di numeri e notizie, le più diverse, che vengono affastellate davanti agli occhi dei lettori e/o degli ascoltatori, tutti e tre i professionisti hanno sottolineato come diventi difficile non solo distinguere ciò che è importante da ciò che non lo è, ciò che è falso da ciò che è vero, ma più ancora individuare la sottile trama delle relazioni di causa-effetto che spiegano quei fatti terribili che ci si affretta a definire “inspiegabili”.
Diventa sempre più difficile cogliere i contorni della realtà, di cui si tende a sottolineare l’efferatezza, la violenza, tutto insomma tranne le motivazioni che non siano quelle legate alla cronaca del singolo evento. Aumentare a dismisura le informazioni inessenziali finisce per rendere poco comprensibile il quadro e per far somigliare tutto ad uno dei tanti sceneggiati che affollano la televisione.
Che fare allora? Come e più di sempre diventa essenziale il ruolo di una cittadinanza attiva e informata che sappia ascoltare, distinguere e che non si accontenti di facili risposte.
In altri termini il coraggio non lo si richiede solo a chi scrive ma anche a chi legge. Non è facile ma non ci sono alternative.