Un 21 marzo diverso, senza grandi manifestazioni a causa della pandemia; una ‘giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie’ da celebrare nei luoghi di cultura, con lo slogan dantesco “A ricordar e riveder le stelle”.
La cultura, così fortemente penalizzata dal Covid, è – infatti – capace di svegliare le coscienze, di seminare responsabilità e partecipazione, di combattere mafie e corruzione.
Libera di Catania ha individuato due luoghi simbolici della Cultura: l’Università e il Teatro Stabile.
La proiezione dei nomi delle vittime della mafia, che solo a Catania sono 25, è avvenuta ieri all’Università, mentre allo Stabile, di fronte ad una platea vuota, è toccato ad alcuni attori leggere i nomi delle vittime mentre, all’esterno, i ragazzi di alcune scuole effettuavano un flahmob, nel rispetto delle regole di distanziamento.
Noi, accogliendo l’invito a riconoscere l’importanza della cultura quale scintilla di memoria e impegno sociale, proponiamo oggi il ricordo del giornalista Mario Francese che, rifiutando compromessi e asservimenti, ha dedicato la propria vita alla costante denuncia della mafia.
Cronista giudiziario del Giornale di Sicilia, fu assassinato a Palermo il 26 gennaio 1979 perchè con le sue indagini dava “fastidio” alla mafia. “A raccontare di questo fastidio furono diversi collaboratori di giustizia” ricorda il figlio Gulio nella recente intervista su “Memoria e Futuro” del 4 febbraio di quest’anno, di cui si può ascoltare la registrazione a questo link
Negli ultimi anni, Francese si era occupato della mafia corleonese, i cosiddetti ‘viddani’, suscitando le critiche dei colleghi che ritenevano tali indagini un’inutile perdita di tempo e preferivano concentrarsi sulla mafia palermitana.
Mario Francese aveva capito, invece, che proprio quei ‘viddani’ si stavano inserendo in appalti importanti come quello della diga Garcia nel Belice ed utilizzavano strategie sanguinarie come dimostrava la mattanza avvenuta, a partire dal 1975, tra Corleone, Roccamena, S. Giuseppe Iato, Mezzoiuso.
Era una vera occupazione militare del territorio con sequestri di persona, creazione di società paravento con prestanomi, attività imprenditoriali come la Zoosicula RISA (acronimo di Riina Salvatore).
Tutte queste cose Francese le raccontava dettagliatamente nei suoi articoli riportando nomi e cognomi dei protagonisti, parlando di organizzazione piramidale della mafia e di una commissione spaccata in due tra ‘mani di velluto’ e ‘viddani’. Riuscì addirittura a raccogliere le dichiarazioni di Ninetta Bagarella che del fidanzato Totò Riina diceva “Che male c’è ad amare Totò Riina? Io lo ritengo innocente”.
Ce n’era abbastanza per decidere di far fuori Mario Francese, definito “un cornuto”, come racconta il collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo il quale, nell’interrogatorio del 15 dicembre 1999, ha dichiarato che l’omicidio del giornalista fu deciso dalla Cupola per mettere a tacere non solo Francese ma tutti gli altri giornalisti.
“E’ questo l’inizio di un vero e proprio golpe di attacco allo Stato”, commenta Giulio. Infatti, dopo il padre, verranno uccisi molti uomini delle istituzioni: Michele Reina, Boris Giuliano, Cesare Terranova, Lenin Mancuso, Pier Santi Mattarella, Emanuele Basile, Gaetano Costa, Pio La Torre, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Mario D’Aleo, Rocco Chinnici.
Nel racconto di Giulio emerge anche il ricordo di un padre che voleva insegnare il mestiere a lui che muoveva i primi passi nel giornalismo. Proprio la mattina del 26 gennaio, come sempre, si erano recati insieme al Tribunale di Palermo per incontrare avvocati, magistrati, cancellieri. Mario, però, sembrava aver fretta, sempre più fretta.
Al figlio aveva già detto che cosa avrebbe dovuto fare e a chi rivolgersi per la pensione nel caso gli fosse accaduto qualcosa. E, alla richiesta di spiegazione, la risposta brusca era stata “Prendi nota e basta”.
Queste preoccupazioni erano fondate, a casa erano arrivate telefonate di minacce e al giornale era stata bruciata l’auto del direttore Lino Rizzi mentre al capocronista Lucio Galluzzo era andata a fuoco la villa a Casteldaccia.
Di li a poco Galluzzo aveva lasciato il giornale, Francese era rimasto ma sempre più isolato, come ricorda Ettore Serio nel verbale di sommarie informazioni testimoniali del 22 aprile 2000: “Francese si occupava di un settore di cui nessuno voleva occuparsi per cui era in una specie di isola deserta”.
Egli continuava a scrivere e avrebbe dovuto pubblicare un Dossier sul rapporto mafia-appalti.
Dopo la morte di Francese non si riuscì ad accertare il movente e consegnare alla giustizia i mandanti e gli esecutori dell’omicidio. Si diceva che fosse stata la mafia, ma non c’era alcun riscontro a questa tesi, avanzata da Boris Giuliano, che fu ucciso da Cosa Nostra pochi mesi dopo, il 21 luglio 1979.
La storia di Mario Francese cadde nel dimenticatoio per vent’anni e per vent’anni la moglie ed i figli dovettero convivere con una morte di cui non era stato riconosciuto il significato, soffocando nel silenzio il bisogno di giustizia e verità.
Nel 1994 alcune dichiarazioni poco attendibili di un pentito, Domenico Di Marco, spinsero Giulio e la famiglia a chiedere giustizia. Si recò da Gian Carlo Caselli ed Enza Sabatino che gli consigliarono di raccogliere articoli, documenti e materiali che confermassero le dichiarazioni di Di Marco.
Da quel momento Giulio con l’aiuto di Giuseppe, il più piccolo dei fratelli, comincia a ricostruire l’attività del padre attraverso i suoi articoli. A Giuseppe, dice il fratello, va il merito di essere riuscito a mettere insieme i pezzi mancanti del puzzle sulla morte del padre e ad ottenere la riapertura dell’inchiesta giudiziaria archiviata anni prima.
Il processo si concluse con la sentenza di condanna a 30 anni di Totò Riina (mandante) e Leoluca Bagarella (esecutore materiale), insieme a Francesco Madonia, Antonio Geraci, Giuseppe Farinella, Michele Greco e Pippo Calò, l’11 aprile 2001 .
Nella motivazione della sentenza i giudici evidenziano che dagli articoli e dai dossier redatti da Mario Francese emerge “una straordinaria capacità di operare collegamenti tra i fatti di cronaca più significativi, di interpretarli con coraggiosa intelligenza e di tracciare una ricostruzione di eccezionale chiarezza e credibilità sulle linee evolutive di Cosa Nostra in una fase storica in cui oltre ad emergere le penetranti e diffuse infiltrazioni mafiose nel mondo degli appalti e dell’economia, iniziava a delinearsi la strategia di attacco di Cosa Nostra alle istituzioni”
Questa sentenza, dice Giulio Francese, per la famiglia è stata una liberazione e una benedizione, “ha restituito a mio padre la sua integrità, la sua dignità umana e professionale”.
Purtroppo, il 2 settembre 2002, Giuseppe, nonostante l’esito positivo del proprio impegno, si toglie la vita impiccandosi ad un lampadario con il guinzaglio del cane. “Giuseppe è stato un gigante, un gigante fragile che voleva rendere giustizia a suo padre”, commenta Giulio.