Cosa c’è di più fragile, cosa dà più l’immagine della debolezza che vedere un uomo di 84 anni, camminare barcollando, quasi a fatica, e appoggiandosi al braccio di un accompagnatore?
E’ questa l’impressione che si ricava guardando in questi giorni papa Francesco nel corso della sua storica visita in Iraq, la terra di Abramo, i luoghi dove hanno avuto origine comune le tre grandi religioni monoteiste. Una visita che, fra l’altro, ha messo la pietra tombale sull’uso ideologico, e quindi violento, delle religioni.
Eppure non sono molte, oggi, le personalità in grado di pronunciare con la stessa autorevolezza e con la stessa mite fermezza le parole fraternità, amicizia sociale, solidarietà, misericordia, pace, uguaglianza, dialogo, giustizia, perdono.
Perché queste parole Francesco non si limita a scriverle o a pronunciarle, ma le incarna con i suoi gesti, spesso inauditi ma sicuramente profetici, rendendole credibili e possibili.
In questo senso la lettera enciclica ‘Fratelli tutti’, che a qualcuno è sembrata segnata da un globalismo ingenuo e superficiale di fronte ai grandi problemi che tutto il mondo sta attraversando, è segnata, da un lato da un grande realismo, e dall’altro è leggibile solo avendo come chiavi di lettura le categorie dell’utopia e della profezia, purché correttamente intese.
Il titolo non deve trarre in inganno, il quadro del mondo che viene delineato nel primo capitolo (nn. 9-55) disegna un contesto drammatico e costituisce, nel suo insieme, un preoccupato grido di allarme.
Esso passa in rassegna solo alcuni dei problemi del mondo odierno: guerra e traffico di armi e di droga, tratta di esseri umani, sfruttamento sessuale di donne, di bambine e bambini, cultura dello scarto nei confronti dei soggetti deboli (nascituri, anziani), terrorismo e crimine internazionale organizzato, saccheggio delle risorse altrui, economia e finanza predatorie, persecuzioni religiose, razzismo e xenofobia, populismo e nazionalismi risorgente, migrazioni coatte, ecc.
Questo mondo, insomma, è descritto come una nuova Babele, che sembra correre inconsapevole verso una terza guerra mondiale a pezzi, in un processo di disgregazione degli apparati di tutela e di promozione del dialogo nati dopo la II guerra mondiale (Onu, Europa), con il progressivo impoverimento di tanti a fronte di un arricchimento di pochissimi, frutto malato di una globalizzazione non governata e dell’individualismo neocapitalista.
A fronte di questo quadro è posto l’unico ma strutturale riferimento biblico, la parabola del Buon Samaritano (nn. 56-86), che è la chiave di lettura di tutta l’enciclica, senza la quale di tutta la lettera resta solo un vago umanitarismo che può facilmente scadere nel buonismo inoffensivo.
La parabola, infatti, è usata come metafora della situazione attuale dell’umanità che può essere così riassunta: il mondo è pieno di briganti (la cultura dello scarto, il capitalismo speculativo e predatorio) che assalgono e lasciano in fin di vita tante persone sul ciglio della strada, soprattutto quelli che sono già fragili; passano tante persone che svolgono ruoli istituzionali, ma si voltano dall’altra parte (le autorità); passa un anonimo uomo comune che decide di prendersi cura del ferito, col suo denaro e il suo tempo (medici, infermieri, badanti, personale delle pulizie, corrieri, addetti dei supermercati, volontari, sacerdoti, religiose…).
Ponendola al centro del suo ragionamento, con la sua precisa chiave di lettura centrata sulla vittima, papa Francesco ha fatto una scelta di campo forte, partigiana e parziale, come ha affermato l’economista Luigino Bruni.
Essa traccia una netta differenza fra l’essere prossimi e l’essere vicini: gli ecclesiastici che passano erano i più vicini, ma non diventano prossimi; è il samaritano, uno straniero considerato per di più eretico, che decide di diventarlo, delineando un’idea di fraternità fondata sulla compassione, sulla misericordia e sul prendersi cura gli uni degli altri, come risposta ad una modernità ormai al capolinea.
Si tratta, ovviamente, di una fraternità che va al di là sia di quella naturale sia di quelle ideologiche e che, se per un verso è ‘data’ dall’appartenenza comune al genere umano, dall’altro è fragile e vulnerabile, come dimostra l’esperienza storica: per questo Francesco la pone non come dato acquisito una volta per tutte, ma come obiettivo da perseguire.
Ma non c’è altra via, ogni altra scelta conduce o dalla parte dei briganti oppure da quella di coloro che passano accanto senza avere compassione del dolore dell’uomo ferito lungo la strada. L’umanità è ridotta a due sole categorie di persone: quelle che si fanno carico del dolore e quelle che si girano dall’altra parte.
E se questo discorso è considerato valido per “tutte le persone di buona volontà” (n. 6), a maggior ragione è valido e impegnativo per i credenti che, attraverso Gesù, si riconoscono nella comune figliolanza in Dio Padre (nn. 272-273), senza considerare questa verità di fede come un privilegio ma come un dono che, a sua volta, deve essere donato a tutti.
Tanti altri sono i temi affrontati, ma, per tornare al realismo di cui parlavamo all’inizio, al n. 165 si nota come anche il samaritano abbia avuto bisogno di un locandiere e di una locanda che lo aiutassero a completare quello che lui da solo non poteva fare.
Fuor di metafora, Francesco sottolinea con insistenza la necessità di restituire centralità alla buona politica (nn. 154-197), che non deve essere succube dell’economia e che va considerata come una delle forme più preziose della carità (n. 180), perché cerca il bene comune.
Carità è, infatti, soccorrere un uomo rimasto vittima di un’aggressione, ma è politica l’adoperarsi per costruire un ospedale efficiente in cui quest’uomo possa essere curato (n. 186).
Sempre all’inizio, suggerivamo come chiave di lettura le categorie dell’utopia e della profezia, purché correttamente intese.
Infatti, cos’è l’utopia?
E’ la proposta di una lettura fortemente critica della realtà esistente e nello stesso tempo capace di indicare, con forza profetica, un’apertura verso un modello diverso, connotato da un radicale rinnovamento culturale e sociale.
E chi è il profeta?
Nel suo significato biblico letterale, è uno che parla in nome di Dio, che richiama il popolo a rispettare i termini della originale alleanza. In questo senso i profeti si fanno interpreti della tradizione autentica, in nome della quale criticano la sclerosi del presente e ne postulano il superamento in direzione del recupero della comune radice che unisce tutti gli uomini
Con i suoi scritti, ma soprattutto con i suoi gesti, quindi, Francesco ancora una volta si pone come lo shomer biblico (Isaia 21, 11): il custode, la sentinella, un profeta per l’oggi, capace di mettere gli uomini in guardia dai gravissimi pericoli verso cui sta andando incontro e propone l’unica medicina possibile: essere ‘fratelli tutti’.