Uno studente universitario, Gaetano De Cristofaro, si interroga e ci interroga sul ruolo dell’Università nell’attuale contingenza.
Lo stato d’emergenza – istituito lo scorso gennaio in previsione della diffusione di una malattia mortale tra la popolazione e che oggi, nove mesi dopo, non è stato ancora revocato, né sembra che lo sarà a breve – è una condizione eccezionale e pertanto richiede uno sforzo eccezionale a chi ne voglia comprendere le ragioni e le dinamiche.
Una università pubblica e interclassista dovrebbe avere un ruolo fondamentale per interpretare questa realtà, sottraendo il monopolio su questa riflessione al dominio esclusivo dei grandi giornali, della televisione e dei più importanti siti internet – tutti media attraverso cui, in modo più o meno celato, si esprime il punto di vista delle classi dominanti.
La crisi del sistema sanitario, sempre più in difficoltà nel gestire pure il flusso ordinario dei pazienti; la crisi del sistema penitenziario, messa in luce dalle proteste di marzo, durante le quali diversi detenuti sono morti; la persistenza della categoria di immigrato clandestino: criminale per nascita, recluso, torturato, costretto a rischiare la vita, sfruttato e odiato; la povertà che colpisce e marginalizza fasce sempre più vaste della popolazione; la militarizzazione delle strade e delle piazze e dei confini tra città, tra regioni e tra stati; la reclusione in casa imposta all’intera popolazione, ovvero la sospensione dei diritti costituzionali di libertà personale, che in molti casi ha significato l’aggravamento e l’emergenza di situazioni di violenza domestica e in altri ha condotto all’isolamento individuale. Questi sono alcuni dei temi che l’attualità suggerisce.
Tuttavia le università italiane, ridotte da tempo ad essere il luogo del rito di passaggio del cittadino-scolaro in cittadino-lavoratore, più istituti professionalizzanti che templi del sapere, dal momento in cui è iniziato lo stato d’emergenza, non sono diventate, come sarebbe stato auspicabile, il teatro di un acceso e approfondito dibattito sulle condizioni attuali.
Al contrario, gli atenei sono stati chiusi in modo pressoché totale e le lezioni si sono spostate dalle aule alle costose e doppiamente escludenti piattaforme dei colossi del capitalismo digitale. Escludenti, in primo luogo, perché presuppongono che l’utente, studente o docente che sia, possieda strumenti tecnologici che non sempre sono alla portata di tutti e che abbia a disposizione spazi adeguati per poterli utilizzare; ed escludenti anche in quanto gli spazi virtuali – dalla capienza limitata e progettati per l’uso aziendale – spesso consentono l’accesso ai soli iscritti al corso.
La consultazione dei testi in biblioteca è stata proibita, l’uso dei laboratori è stato ridotto al minimo, le aule studio sono state chiuse ed è stato vietato l’uso degli spazi dell’università come luogo di riunione – siano pure spazi all’aperto.
I docenti sono stati costretti al ruolo “robotico” di erogatori del sapere e certificatori delle competenze acquisite dagli studenti, i quali, a loro volta, sono stati banditi dall’ateneo. E se è stato il presidente del consiglio e non il parlamento a emanare i decreti che ordinavano la chiusura delle attività ritenute non essenziali e il confinamento domestico dei cittadini, analogamente sono statti i rettori e non i consigli d’ateneo a decidere la sospensione delle attività delle università.
Le quali mai hanno potuto riprendere in questi mesi lezioni e ricerca, nemmeno a maggio, quando ogni altra attività – seppure con alcune limitazioni – è ripartita. Come se l’apertura delle università rappresentasse un pericolo maggiore di quella delle discoteche o dei centri commerciali.
L’università è stata così smaterializzata e immiserita, rischiando di perdere definitivamente la propria funzione di luogo finalizzato alla conservazione e allo sviluppo collettivo delle scienze naturali e sociali. Nondimeno, è proprio nell’esercizio di tale funzione che l’università può essere in grado di individuare gli strumenti che la società può adoperare per intervenire nella crisi attuale, indicando un percorso di cambiamento, come avvenne dopo la peste del 1300 cui seguì il periodo umanistico-rinascimentale.
Ma perché l’università riacquisti tale ruolo, la comunità universitaria dovrà essere in grado di liberarsi da quel processo di abbrutimento di cui è vittima, riorganizzarsi e riconquistare coraggiosamente quegli spazi dove possa rifiorire una scienza libera, plurale e popolare – unico antidoto al rumore incessante-terrorizzante-narcotizzante cui siamo sottoposti.