Sta facendo molto discutere in questi giorni la recente sentenza resa dalla Corte di Cassazione sul caso Riina.
Il dibattito sembra però essersi discostato parecchio dal contenuto effettivo della sentenza, assumendo spesso e volentieri toni populistici e rianimando il mai assopito scontro senza mezze misure tra “garantisti” e “giustizialisti”.
Se certamente rappresenta un segnale positivo l’ondata di genuina indignazione che ha accompagnato la diffusione della notizia di una possibile scarcerazione del boss corleonese, è importante fare chiarezza su ciò che ha realmente detto la Cassazione.
Ricapitoliamo il caso: il boss corleonese, quasi 87enne, ha proposto istanza al Tribunale di sorveglianza di Bologna per chiedere il differimento della pena o, in subordine, la detenzione domiciliare, in ragione della gravità del suo stato di salute.
Cosa doveva verificare il giudice? Essenzialmente due profili: la compatibilità o meno dello stato di salute di Riina con la detenzione carceraria e il suo grado attuale di pericolosità sociale.
Il Tribunale di sorveglianza di Bologna ha rigettato l’istanza, sostenendo la trattabilità delle patologie di Riina anche in ambiente carcerario e l’altissimo tasso di pericolosità del detenuto.
Qual è il problema secondo la Cassazione? Che questi punti non sono stati motivati in maniera soddisfacente dal giudice di primo grado. In parole povere, non è che siccome Riina è Riina, possiamo permetterci di rigettare le sue istanze senza allegare una motivazione concreta a supporto.
Sul punto della compatibilità tra lo stato di salute di Riina e la detenzione carceraria, la motivazione è carente perché considera solo la trattabilità delle patologie nell’ambiente carcerario e non il «complessivo stato morboso del detenuto e le sue generali condizioni di scadimento fisico».
Non è chiaro, in particolare, «in che modo si è giunti a ritenere compatibile con le molteplici funzioni della pena e con il senso di umanità che la nostra costituzione e la convenzione EDU impongono nell’esecuzione della stessa, il mantenimento in carcere, in luogo della detenzione domiciliare, di un soggetto ultraottantenne, affetto da duplice neoplasia renale, con una situazione neurologica altamente compromessa, tanto da essere allettato con materasso antidecubito e non autonomo nell’assumere una posizione seduta, esposto, in ragione di una grave cardiopatia ad eventi cardiovascolari infausti e non prevedibili».
Ciò è particolarmente grave perché mantenere in carcere un detenuto in gravissime condizioni di salute, se non ragionevolmente motivato, può costituire un trattamento disumano e degradante contrario all’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti Umani (CEDU).
L’ordinanza del Tribunale viene inoltre ritenuta contraddittoria perché «da un lato afferma la compatibilità dello stato di detenzione dell’istante con le sue condizioni di salute e dall’altro evidenzia espressamente le deficienze strutturali della Casa di reclusione di Parma ove il medesimo è ristretto, pur ritenendo le stesse irrilevanti ai fini della decisione sulle istanze oggetto di valutazione».
Infine la Corte ha considerato carente la motivazione offerta dal Tribunale circa l’attualità della pericolosità sociale del detenuto.
Si osserva in merito che, «ferma restando l’altissima pericolosità del detenuto Salvatore Riina e del suo indiscusso spessore criminale, il provvedimento non chiarisce, con motivazione adeguata, come tale pericolosità possa e debba considerarsi attuale in considerazione della sopravvenuta precarietà delle condizioni di salute e del più generale stato di decadimento fisico dello stesso».
Insomma, per tirare le fila del discorso: nessuno ha ordinato o chiesto la scarcerazione di Riina, nessuno ha affermato che per rispettare il suo diritto a morire dignitosamente sia necessario un suo rientro a casa e nessuno ha sostenuto che non sia pericoloso.
La Cassazione non ha preso posizione su questi punti. Semplicemente, ritenendo la motivazione non sufficiente, ha rinviato nuovamente le carte al Tribunale di sorveglianza di Bologna, che dovrà adesso decidere nuovamente motivando adeguatamente le sue conclusioni.
Alla luce di ciò, non si può non accogliere con favore la sentenza della Corte di Cassazione. La limitazione di certi diritti è possibile, ma non senza allegare in maniera puntuale le ragioni che la giustifichino.
La differenza tra la legittimità dell’esercizio del potere da parte dello Stato e l’illegittimità del potere esercitato da parte della criminalità organizzata risiede nel rispetto di certe norme e principi che stanno alla base della nostra civiltà giuridica: in questo caso, quantomeno l’art. 27 della Costituzione, secondo cui «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità», l’art. 3 CEDU sul divieto di “trattamenti disumani e degradanti”, oltre al diritto alla tutela giurisdizionale effettiva e il diritto di difesa (art. 24 Cost. e 6 CEDU), che risulterebbero lesi in caso di carenza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione.
Quindi, non si tratta di fare “discorsi caritatevoli” o di “ipocrisia”. È molto probabilmente vero che un boss come Riina “comanda anche con gli occhi” e che la sua sola presenza fisica è in grado di incidere in maniera determinante sugli equilibri strutturali di Cosa Nostra, come ha affermato il procuratore Nicola Gratteri.
Ma noi, come cittadini, dobbiamo pretendere che queste stesse cose le dica eventualmente il Tribunale di sorveglianza di Bologna, all’esito dei dovuti accertamenti e motivando adeguatamente le proprie scelte in un senso o nell’altro.
Sennò ammettiamo che il nostro sistema penale e penitenziario è ancora legato a logiche di mera vendetta e chiudiamola qui.
Il problema di fondo è che il sistema giudiziario, in Italia come in qualunque altro luogo e tempo, si fonda non solo sulla retribuzione (hai commesso un reato dunque ti punisco con una pena commisurata ad esso) ma anche sulla risposta ad esigenze di difesa sociale (sei pericoloso, dunque la società deve difendersi da te e ti deve mettere in condizioni di non nuocere), che non equivalgono alla ‘vendetta’ come qualcuno ha detto impropriamente nel dibattito sul caso in questione.
Su questo si fonda il principio della ‘pericolosita’ sociale’, che non riguarda solo Riina ma qualunque scippatore o potenzialmente tale (purtroppo molto meno i grandi evasori fiscali e i politici corrotti!).
La pericolosità sociale è definita dal codice penale come attitudine alla commissione o reiterazione di fatti socialmente allarmanti, e questo – come sanzione aggiuntiva alla pena, o addirittura al di fuori di essa, a scopo ‘preventivo’ – può portare a misure di sicurezza che vanno dal DASP riguardante i tifosi violenti ad anni di libertà vigilata fino alla cura psichiatrica coatta o alla vigilanza sui potenziali terroristi.
Il caso Riina è solo la punta eclatante di questo problema: nessun dubbio – e ha fatto bene la Cassazione a rimarcarlo, ma lo aveva già detto in precedenza per casi meno clamorosi – che ogni decisione del tribunale va adeguatamente e non genericamente motivata, ma ciò non toglie che la difesa sociale resti uno dei presupposti delle misure giudiziarie, e deve essere non rimossa dalla memoria ma conciliata con i principi di uno stato di diritto (che vale per tutti, mafiosi compresi).
Finalmente un articolo serio!