Riceviamo dal costituzionalista Ettore Palazzolo una riflessione sulla Brexit e sull’istituto referendario in quanto tale. Verrà completata a breve da un successivo intervento.
Sulla base dell’appartenenza geografica, culturale e generazionale dei votanti dei due schieramenti, vari osservatori hanno notato come, non solo alcuni territori come La Scozia e l’Irlanda del Nord, ma anche Londra e le grandi città, così come i ceti più colti e le generazioni più giovani – pur in questo caso, con una bassa percentuale dei votanti – si sono espresse a favore della permanenza della GB all’interno della UE.
Per la Brexit hanno votato soprattutto le campagne e i borghi, i cittadini meno scolarizzati e le persone anziane.
Senza entrare nel merito della scelta compiuta o della possibilità di cambiare dall’interno le istituzioni della Unione Europea, di cui è sempre più difficile riconoscere il carattere democratico, proviamo a rispondere ad alcune domande che nascono da questa analisi del voto.
Dal momento che un elettorato meno colto e meno informato può soggiacere più facilmente all’intervento di abili manipolatori e demagoghi, dobbiamo considerare il voto espresso a maggioranza come un voto “di pancia”? Su questo starei un po’ attento.
Certamente è possibile affermare che ci sia stata una componente di nostalgia verso un passato, quello dell’impero britannico, considerato glorioso, pur nella sua splendida autosufficienza.
Potrebbe trattarsi dell’ennesimo voto anti–establishment, così come recentemente avvenuto nelle presidenziali in Austria, nelle amministrative in Italia.
Soprattutto – come ammettono tutti – è stato un voto anti-immigrazione.
Si pone comunque la questione della demagogia nelle campagne referendarie, che penso di trattare in successivo intervento.
Mi limito per adesso ad osservare che già Aristotele, venticinque secoli fa, considerava la demagogia una degenerazione della democrazia, e che oggi, con la potenza degli strumenti di comunicazione a disposizione, si rischia di trasformare la lotta politica in un continuo scontro tra opposte tifoserie.
L’irresponsabilità della classe politica britannica
Oltre all’atteggiamento della Scozia, che vorrebbe pure entrare nella moneta unica, si deve registrare quello dell’Irlanda del Nord, che si è pronunciata contro la Brexit, anche per la consistente presenza cattolico-repubblicana. Qui il ripristino della frontiera con l’EIRE, che sarebbe anche la frontiera dell’UE e dell’Euro, rischia di riaprire i conflitti fra le due componenti interne, faticosamente cessati a seguito degli “Accordi del venerdì santo” del 1998.
La cosa più grave è, però, l’uso cinico e strumentale dell’istituto del referendum per il proprio tornaconto personale, in termini di potere. Intendiamoci, questo accade anche in altri ordinamenti e in altri Paesi, compreso il nostro, ma nel caso Brexit assume caratteristiche quasi di scuola.
Cameron per rafforzarsi politicamente ha indetto un referendum e poi avviato trattative con la Commissione EU per strappare una serie di concessioni, in gran parte ottenute. Adesso ha cominciato a sostenere che l’uscita dalla Unione europea non comporterebbe necessariamente l’uscita dal Mercato comune.
L’ex sindaco di Londra, attuale parlamentare conservatore, Boris Johnson, per evidenti ambizioni personali si è trasformato in euroscettico diventando uno dei promotori delle Brexit, paragonando l’Unione europea ad Hitler. Adesso afferma tuttavia che non c’è alcuna fretta di abbandonare l’UE.
Nigel Farage, fondatore di un partito di ultra destra, l’UKIP, è stato costretto ad ammettere che non ci sarà, in conseguenza della Brexit, un extra gettito di 350 milioni di sterline a settimana, per il sistema sanitario britannico, come aveva promesso in campagna elettorale… In sede di Parlamento europeo vota, però, contro la proposta di realizzare in fretta l’uscita dall’Unione…
Per non parlare dei deputati della Cornovaglia, che pure si è pronunciata nettamente per la Brexit. Una volta preso atto – ma ci voleva tanto a capirlo? – che essa comporterà la perdita dei fondi strutturali dell’UE, di cui questa regione è largamente beneficiaria, hanno cominciato a fare una serie di distinzioni…
In questo momento la classe politica della Gran Bretagna si trova ad essere, nelle sue varie articolazioni, praticamente decapitata. Il premier Cameron, ovviamente, dimissionario. Il leader dell’opposizione, il laburista Corbyn, sfiduciato dal suo stesso partito per lo scarso impegno mostrato nella campagna referendaria, per contrastare la Brexit. Farage, il vincitore di questo referendum, dimessosi ieri da capo dell’UKIP. Lo stesso Boris Johnson rinuncia a partecipare alle primarie per la leadersheep del Partito conservatore. Quale sia il senso di tutto ciò lo capiremo nei prossimi giorni.
Vorrei essere chiaro. Non dico questo per delegittimare questo referendum. Semmai è l’istituto del referendum consultivo, così come congegnato in Gran Bretagna, che lascia troppe questione largamente indeterminate.
Soprattutto vorrei evidenziare l’assoluta irresponsabilità di pezzi importanti di classe politica, a cominciare da Cameron, che ha posto al popolo un quesito, senza comunicare ad esso – probabilmente perché lo ignoravano pure i promotori – tutte le conseguenze della decisione.
E qui concludo il ragionamento riaffermando che non esistono soluzioni facili a problemi complessi. Pensare di risolvere il problema dell’appartenenza o meno all’Unione europea, quasi a voler tagliare il nodo di Gordio, con un referendum, solo consultivo, rischia di essere solo un’illusione decisionista, destinata ben presto ad essere smentita dalla cruda realtà dei fatti.
Democratizzazione della Unione Europea e referendum costituzionale
Prendendo in considerazione il referendum costituzionale a cui saremo chiamati in ottobre, vorrei fare alcune considerazioni preliminari sul rapporto fra riforme costituzionali e rapporto con l’Unione europea.
Essendo la politica italiana all’80% determinata da decisioni provenienti dall’Unione europea ed essendo quest’ultima largamente al di sotto di uno standard elementare di democrazia, sarebbe necessaria e prioritaria una battaglia per la democratizzazione dell’Unione.
Nonostante si tratti di un ragionamento elementare, solo ora e dopo la Brexit si accenna, da parte del Presidente del Consiglio, alla necessità di “una ristrutturazione della casa europea”.
Quello che però mi ha colpito, è stato l’atteggiamento, in qualche modo simmetrico e direi in qualche modo subalterno, di coloro che si oppongono alla revisione costituzionale proposta dal Governo, per non parlare del ruolo – totalmente assente – delle forze cosiddette progressiste all’interno del Parlamento europeo.
Certo non spetta alle opposizioni riformare l’organizzazione dell’Unione europea. Ma agitare il problema, mobilitarsi, smentire il punto di vista del Governo, mi sembrava il minimo che si potesse fare, anche per mostrare all’opinione pubblica che quello del Governo italiano e della sua maggioranza era anche un grande diversivo per non affrontare, questo sì, la riforma dell’Unione europea.
Credo si stia perdendo un’occasione preziosa: si poteva, e forse ancora si può, combattere la pessima riforma del Senato, accompagnandola con un forte appello, possibilmente da inserire in una petizione parlamentare, per la democratizzazione delle istituzione europee.
A cominciare dal Parlamento europeo, che potrebbe, se adeguatamente riformato a cominciare dal suo regolamento interno, rappresentare la chiave di volta, oserei dire il grimaldello, per un cambiamento in senso democratico, originato dall’esterno, ma agito anche dall’interno della Unione.
Ma anche per proclamare una vera solidarietà sia fra Stati membri dell’Unione, sia soprattutto nei riguardi dei migranti e dei rifugiati.
E soprattutto per affermarne il carattere sociale, tutelando prioritariamente lavoratori e fruitori di bassi redditi rispetto a Banche ed istituzioni finanziarie.
E non ci si venga a dire che queste istituzioni costituiscono una gabbia – il che in parte è vero – come alibi della propria ignavia. E mi riferisco al ruolo delle forze cosiddette progressiste all’interno del Parlamento europeo, ormai da diverse legislature.
Bisogna chiamare le cose con il loro nome perché chi vuole combattere per i diritti civili e la democrazia, anche in situazioni estreme, riesce a farlo anche con gravi rischi personali e pagando grossi prezzi: si pensi alla Birmania e al coraggio di Aung San-Suu-Kyi, ma è solo un esempio, si potrebbe citare altri eroi senza nome in paesi che non brillano per la democrazia, come la Turchia, l’Egitto, l’Arabia saudita, ecc.
Forse siamo ancora in tempo per darci questo obiettivo. Capisco che la prima preoccupazione dei Comitati per il NO al referendum costituzionale è stata quella della raccolta delle firme, ma se questa fosse stata accompagnata da una petizione “per un’Europa democratica, solidale e sociale”, forse le firme sarebbero state raggiunte più agevolmente e sarebbe cresciuto il livello di consapevolezza su ciò che è veramente in ballo con questo referendum. Lo ripeto, forse ancora siamo in tempo.