Perché scrivere un libro come “La pedagogia della palla ovale: un viaggio nell’Italia del rugby” sulla valenza pedagogica del rugby? Perchè presentarlo, lo scorso settembre, alla Librineria, biblioteca popolare realizzata nel quartiere di Librino, là dove gioca la squadra di rugby dei Briganti ?
Il motivo c’è, eccome. L’autore, infatti, Nicola De Cilia, pur non essendo un giocatore di rugby ma un docente di liceo, ha scoperto in età “senile” la passione per questo sport al punto di pensare che “coniugare l’amore per il rugby con la mia passione pedagogica potesse trasformarsi in qualcosa di utile, non solo per me”.
E poiché di libri sugli aspetti educativi del rugby non ce ne sono, da pioniere, ha intrapreso un viaggio lungo la Penisola, dal Veneto al Lazio, dalla Campania alla Lombardia e alla Sicilia, per appurare lo stato “dell’arte” di questo sport e indagare quanto la pedagogia e il rugby vadano ancora a braccetto, anzi in “meta” per utilizzare un termine rugbista.
L’indagine si svolge in due direzioni: la prima riguarda il rugby ufficiale, quello strutturato e organizzato nei centri di formazione e nelle accademie; la seconda quella del rugby definito di “frontiera” nelle zone a rischio come i quartieri di Scampia a Napoli o di Librino a Catania. Laddove il rugby, come dice l’autore, afferma la sua forte e incisiva valenza educativa in realtà emarginate e difficili .
Così nell’ultima parte del libro sono raccontate le esperienze delle periferie di Scampisi a Napoli, dei Pirati di Castel Volturno nella terra dei fuochi, dell’Istituto penale minorile Beccaria e della casa di reclusione di Bollate a Milano e infine dei Briganti Librino.
Per raccontare l’esperienza dell’Asd dei Briganti, l’autore dà voce ai diretti protagonisti.
Piero Mancuso, uno dei fondatori storici della squadra, sostiene scherzando che le attività che si svolgono al campo sono molto faticose “abbiamo l’inferno, un manicomio di attività”, ma portiamo avanti un progetto con degli obiettivi di consolidamento e di crescita.
Il rugby – continua Piero – “intercetta la voglia di riscatto dei giovani del quartiere, i ragazzi cercano un’affermazione attraverso il rugby; la soddisfazione sta nel vedere che il tuo progetto, il tuo lavoro contribuisce a modificare dei comportamenti che sembravano immodificabili”.
Per fortuna c’è un bel gruppo di volontari che ha contribuito a creare nuovi spazi di attività per i bambini di Librino come l’apertura della biblioteca, un servizio di doposcuola, la creazione di un laboratorio di aquiloni per i più piccoli.
L’obiettivo è coinvolgere non solo i ragazzi ma anche le famiglie, “perché purtroppo persiste una forte diffidenza nelle persone” come racconta Angela una giovane volontaria.
Marco, agente immobiliare che fa parte della squadra dei Briganti, allena il minirugby e organizza il torneo Iqbal Masih, il più grande torneo di minirugby della Sicilia. Insieme ad altri volontari si reca nei tre istituti comprensivi presenti nel quartiere a insegnare rugby.
Significativa la testimonianza di Giorgio. Questo adolescente, che gioca a rugby da tre anni a Librino, coglie il valore educativo di questo sport quando dice “mi piace che sia uno sport di squadra, se sbaglia uno sbaglia tutta la squadra, ma anche la meta di uno è il frutto del lavoro di tutta la squadra”.
Purtroppo però, da quando il rugby è diventato uno sport professionista, i centri di formazione e le accademie hanno privilegiato l’aspetto tecnico a danno di quello formativo, per rendere i giocatori più competitivi.
A parlare di eccesso di professionismo in questo sport sono i diretti interessati: allenatori, giocatori, giornalisti, dirigenti, psicologi dello sport.
Molti ribadiscono i valori di base del rugby, essenziali nella formazione dei giovani: oltre al gioco di squadra, il rispetto delle regole e il rispetto delle persone, siano esse l’arbitro o gli avversari, da considerarsi compagni di gioco e non nemici.
Ma lo stesso De Cilia si domanda “quando uno sport diventa professionistico e dunque simile ad uno spettacolo, è ancora educativo ?”
Per altri invece i problemi del rugby italiano fanno tutt’uno con le manchevolezze della scuola statale che non si è mai occupata seriamente dell’attività sportiva demandandola al privato.
Proprio la consapevolezza del danno che il professionismo spinto può arrecare allo spirito vero che genera e sostiene lo sport del rugby fa dire a Marco Paolini, attore interprete del teatro civile, in una intervista su l’Espresso del settembre 2015: “se fossi il coach della Nazionale, prima di partire farei quello che Nelson Mandela chiese al suo capitano alla vigilia dei Mondiali del Sud-Africa nel 1985: andate negli slum ed imparate daccapo per chi giocherete… Porterei la squadra in un quartiere di Catania, sul campo clandestino senza erba dei ragazzi di una delle più formidabili squadrette del nostro Paese, porterei i giocatori dai Briganti di Librino e forse lì si capirebbe che anche le astronavi stellari del Mondiale, visti dal quartiere di Librino, possano esser fatte a pezzi, combattute e riportate a terra”.
E con queste parole Marco Paolini dà visibilità e sostegno a quell’opera meritoria che i Briganti svolgono nello sport e con lo sport in una periferia catanese che ha tanta voglia di riscatto e rinascita.
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