“Faremo un sacco di affari in più, avremo più opportunità per le nostre imprese…”. Sono questi gli slogan ingannevoli che cercano di rendere attraente ai nostri occhi il TTIP, il trattato di libero scambio tra Europa e USA contro cui è stata organizzata per oggi, 18 aprile, una giornata ‘globale’ di mobilitazione a cui parteciperanno, con proprie iniziative, più di 300 città di tutto il mondo.
Una mobilitazione a cui partecipano associazioni di paesi europei, americani, asiatici, africani, organizzata alla vigilia del nuovo ciclo di trattative tra Commissione europea e Governo Usa, che si terrà a New York dal 20 al 24 aprile.
Previsti flash mob in costume da fantasmi, cortei e altre iniziative. A Catania un volantinaggio in piazza Stesicoro, a partire dalle ore 10.
Prosegue inoltre la raccolta di firme per fermare il trattato, che ha già superato un milione e 700 mila adesioni, e l’invio di tweet e mail ai parlamentari europei.
Una serie di iniziative che -scrivono i promotori della campagna Stop TTIP- ha sicuramente contribuito ad aprire una crepa nel muro di omertà e di segretezza che ha nascosto la natura e gli obiettivi del trattato agli occhi dei cittadini.
Da cosa nasce la necessità di approvare un trattato di liberalizzazione commerciale se le barriere commerciali tra noi e gli Usa sono già estremamente ridotte, con una tassazione di appena il 4%, tranne che nei settori che noi stessi abbiamo voluto proteggere e tutelare come la moda, le calzature, l’oreficeria?
Alla domanda risponde Marco Bersani, coautore del libro pubblicato da Emi, “Nelle mani dei mercati”. Ieri alla trasmissione Radio 3Mondo ha ribadito che, per l’80%, le trattative riguardano le cosiddette ‘barriere non tariffarie‘, vale adire normative, leggi, regolamenti che rendono difficili gli investimenti delle multinazionali.
Ragioniamo per esempi, come ha fatto Monica Di Sisto nell’incontro sul TTIP organizzato il 21 marzo da Pax Christi Catania.
Partiamo dai piccoli elettrodomestici come i frullatori, che da noi non possono essere venduti senza il marchio CE, a garanzia che siano stati eseguiti i test di controllo sulla sicurezza previsti dalla Comunità Europea.
O parliamo dell’agroalimentare, ambito in cui i controlli sono fatti -in Europa- su ogni passaggio, “from farm to fork”.
Negli USA, invece, il cibo è controllato solo alla fine, trascurando quello che può avvenire nel percorso, come il lavaggio del pollo, imbottito peraltro di antibiotici, con il cloro o i risciacqui delle verdure che le privano delle vitamine.
Non sarà un caso che le malattie e le morti per sofisticazione alimentare colpiscono annualmente negli Stati Uniti centinaia di migliaia di persone, mentre in Europa non arriviamo nemmeno a cento, considerando nel numero anche chi muore di botulino o per consumo di funghi velenosi.
C’è di più. Negli USA tocca al cittadino dimostrare che i danni subiti, alla salute o alla sicurezza, siano dovuti a una determinata sostanza. Ma può l’uomo della strada avere i mezzi, gli strumenti, i soldi necessari?
Anche perchè non si tratta di poche sostanze pericolose, visto che pesticidi, coloranti e altri agenti chimici banditi in Europa sono liberamente usati negli USA.
Manca soprattutto in quel paese il ‘principio di precauzione‘, che impone cautela anche nei casi in cui non c’è la certezza scientifica che un certo fattore produca danni.
Di Sisto ha ricordato, ad esempio, che -nel caso della cosiddetta “mucca pazza”- in Italia fu bloccato l’arrivo della carne dall’Inghilterra anche in assenza dell’assoluta certezza che fosse davvero pericolosa.
Noi abbiamo già dei contenziosi commerciali con gli Stati Uniti, ha ricordato la relatrice. Non importiamo prodotti come i cosmetici che contengono ormoni o i giocattoli di plastica ammorbidita con sostanze tossiche. E solo da poco è stato chiuso un contenzioso, relativo alla carne di animali trattati con ormoni, che aveva indotto gli USA a ritorsioni nei confronti dell’importazione di prodotti italiani.
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Come saranno gestiti i contenziosi futuri, se il criterio fondamentale diventerà la facilitazione commerciale? Tutto quello che la ostacola, comprese le norme interne che uno Stato vorrà darsi, potrà essere oggetto di contenzioso da parte di aziende che si sentono danneggiate nei loro profitti.
Basta pensare all’ormai citatissimo caso dell’Uruguay, che ha cambiato le regole della pubblicità sul fumo, prendendo sul serio l’accordo internazionale del maggio 2003 sulla sua progressiva messa al bando. Ha quindi imposto che sull’80% dei pacchetti di sigarette ci siano delle drammatiche immagini scoraggianti che scoraggino il consumo, suscitando, però, la reazione della Philip Morris che ha fatto causa allo Stato. Il giudizio è ancora in corso, ma la controversia ha acquisito un valore emblematico.
Cosa sarebbe accaduto, infatti, se fosse stato in vigore un trattato come il TTIP? Si sarebbe fatto ricorso all’arbitrato di un tribunale ad hoc, formato da tre elementi, rispettivamente con il ruolo di accusatore, difensore e giudice, tutti comunque avvocati commerciali, membri di studi legali pratici di queste questioni (ce ne sono un numero limitato in tutto il mondo, ha detto Di Sisto).
Nulla a che vedere con le aule di giustizia e con le garanzie previste dalle legislazioni statali, nessuna possibilità di fare sentire la propria voce per le associazioni di consumatori o per il personale sanitario.
Il potere andrà a non meglio precisate strutture tecniche capaci di bloccare o indebolire regolamentazioni e standard senza che gli organi democraticamente eletti, come i Parlamenti, abbiano il potere di intervenire.
Visto che sono in ballo la nostra salute e la nostra sicurezza, quali vantaggi economici avremo in cambio? Le previsioni più ottimistiche, come quelle del Sole24 ore – ha detto Di Sisto- parlano di 500 euro l’anno, non a persona ma a famiglia: un cappuccino a settimana! Vale la pena mettere in discussione, per un cappuccino, le modalità di decisione su cose importanti che riguardano la nostra vita?
Senza trascurare che, se davvero -come afferma la stessa fonte- gli scambi tra i paesi europei si ridurrebbero del 40%, entrerebbero in crisi molte imprese e verrebbero compromessi il mercato comune europeo e la tenuta stessa dell’Europa.
Nel settore agroalimentare, di cui è esperta, Di Sisto prevede la fine delle aziende familiari e dei piccoli produttori più legati al territorio e alla qualità dei prodotti. In cambio avremo un’invasione di prodotti a basso prezzo, di poco valore e niente affatto sicuri. Le stesse stime del Parlamento europeo parlano di un aumento del 118% delle importazioni di agroalimentare americano.
Con un effetto disastroso anche in termini di occupazione. I calcoli dell’Università Tufts del Massachusetts prevedono circa 600mila lavoratori a spasso nella sola Europa entro il primo anno d’entrata in vigore del trattato.
Quanto a noi, prenderemo mazzate in tutti settori tranne in quelli in cui siamo fortissimi come l’oreficeria e le scarpe. Ci guadagneranno dieci, massimo venti imprese.
La speranza di fermare il Trattato non è ancora perduta. “L‘anno 2015– ha concluso Monica Di Sisto- sarà decisivo. Se arriviamo a settembre-ottobre abbiamo la speranza di esserne fuori perchè Obama entra nel semestre bianco in cui non può più firmare trattati internazionali per non sovradeterminare le scelte del suo successore. E noi potremo tirare un sospiro di sollievo”
Manifestazioni contro il TTIP in Europa