Benefattore come Robin Hood? Vignettista come Altan o Elle Kappa? Pittore di talento? Politico dalla vista acuta e amministratore onesto? Perseguitato perchè anarchico e omosessuale? Oppure volgare malvivente? Tanti modi per descrivere Paolo Ciulla, il più grande falsario italiano la cui vita romanzesca viene adesso raccontata nel libro “Ciulla il grande malfattore” (Guanda) di Dario Fo e del catanese Piero Sciotto.
Loro, gli autori, il premio Nobel e il suo storico collaboratore, propendono per le ipotesi poste prima dell’”oppure” e ne approfittano per creare un affresco del Regno d’Italia a cavallo tra fine Ottocento e inizi Novecento.
Allora come oggi c’erano politici e imprenditori corrotti/corruttori che d’accordo con mafiosi fregavano i soldi e talora la vita ad onesti/ingenui cittadini italiani.
“Addentrandoci in quel mondo ci siamo ritrovati in una fiaba gotica, fatta di rovine, popolata di mostri, cavalieri vendicatori, vizi, virtù, elfi, eroi, nani e ballerine, brutture e riscatti” – spiegano Fo e Sciotto – “e alla fine Ciulla ci è saltato addosso e non ci ha più mollati, quasi ci chiedesse di riprendere la sua storia, egocentrico, presuntuoso e pieno di sé, come è sempre stato. Un vero artista, anzi, un artista grande, come amava definirsi”.
L’investigatore l’ha fatto Sciotto che è andato a palazzo di giustizia di Catania a cercare la verità tra le carte del processo intentato contro Ciulla. Il falsario fu arrestato nel 1921 con l’accusa di aver fabbricato quattrini falsi, le 500 lire del Regno. Fu condannato a cinque anni e seimila lire di multa mentre venivano assolti i banchieri e i deputati coinvolti nello scandalo della Banca Romana.
Tantè. Questa è la vita.
Il banco degli accusati fu, però, vissuto da Ciulla come un palcoscenico sul quale finalmente mostrare la sua perizia di artista. Il processo, il riconoscimento del suo genio troppo spesso ignorato.
I catanesi accorrono a frotte a sentirlo, brillante e ironico, sfottente anche verso il rappresentante dell’accusa.
Non è per arricchirsi che fabbrica quattrini falsi, ma per mostrare la sua arte. Disegna, insomma, la famosa banconota da 500 lire con l’orgoglio del creatore, come Leonardo dipinge la sua Gioconda. E distribuisce ai poveri disgraziati il “suo” denaro, così bene imitato da sembrare autentico, per fare beneficienza, certo, ma chissà, forse anche, per farsi… scoprire. Così da vedere riconosciuto il suo genio.
“Si parla molto di me a Catania?”, chiede durante il processo e alla risposta affermativa ribatte: “Finalmente! E’ inutile! A questo mondo bisogna fare qualcosa contro le leggi per acquistare la fama”.
Una vita avventurosa quella di Paolo Ciulla che egli stesso racconta ai giudici. Nasce a Caltagirone nel 1867, e ancora ragazzo si fa notare per il tratto del suo disegno che lo porta ad ottenere una borsa di studio. Andrà a studiare all’accademia di Roma, e a quelle di Napoli e Parigi. Diventerà un ottimo illustratore di libri e pittore. Per biechi motivi politici non gli concederanno mai di insegnare, ignorando meriti, diritti e curricula.
Nella sua esistenza questo falsario, generoso con i poveri, fa tante cose, come ne avesse tante di vite: aderisce alle lotte contro il latifondo, partecipa al movimento dei Fasci siciliani ma fa anche il fotografo e l’intrattenitore nelle feste rionali e nei ristoranti. Agli inizi del secolo lo troviamo nella Parigi di Picasso e Modigliani, poi tra gli immigrati di Buenos Aires. Ed è qui che impara i rudimenti della falsificazione della cartamoneta e li perfeziona inventando la tecnica delle fotografie sovrapposte.
Scoperto, viene arrestato e internato in un manicomio di Buenos Aires; poi torna in Sicilia dove comincia a creare i cliché della carta da 50 e 100 lire. Reso ormai semicieco dall’uso degli acidi, i soci che non si fidano di lui, lo mollano. Ma lui non demorde.
Si trasferisce in una casupola sperduta in mezzo alle sciare della periferia di Catania, dalle parti di viale Mario Rapisarda, dove creerà il suo capolavoro. E’ la banconota da 500 lire ( che vale circa 750 euro attuali) così perfetta che solo lui, Ciulla, potrà riconoscerla: “Fondo viola pallido, cornice azzurra, stemma sabaudo in alto, in testa un’aquila, poi l’allegoria della Legge, l’allegoria della Giustizia bendata, la spada impugnata… E per finire, un puttino che regge una bilancia”.
Persino il perito delle Banca d’Italia ricobbe che i biglietti fabbricati da Paolo Ciulla erano autentici capolavori, tali e quali agli originali.
Nel giro di due anni ne metterà in circolazione per 12 milioni, l’equivalente di 18 milioni di euro.
Quando le guardie faranno irruzione nella catapecchia in cui viveva e lavorava troveranno un uomo quasi cieco e solo. Accanto a lui le sue macchine, i suoi acidi, e le banconote stese in casa ad asciugare su un filo teso, come panni al sole.
“Parlerò solo davanti al Procuratore del Re”, dichiara alle guardie regie. E al Procuratore che vuole interrogarlo: “Davanti a un artista si tolga il cappello”.
Si ridurrà cieco dopo che i vapori degli acidi usati per stampare i suoi capolavori gli avranno corroso le pupille e fatto perdere del tutto la vista. Morirà nel 1931 cieco e povero, in un ospizio, dove insegnava a ballare agli altri vecchietti i tanghi e le milonghe che aveva imparato in Argentina.
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