Poco più di un anno fa il Presidente Crocetta e l’Assessore all’Ambiente Lo Bello avevano “garantito un immediato deciso sostegno nella battaglia contro le perforazioni off-shore e per la tutela del mare del Canale di Sicilia”, con ‘soddisfazione’ di Greepeace e di altre associazioni ambientaliste.
In linea con questa presa di posizione la Regione Sicilia diede parere negativo al progetto dell’Eni “Offshore Ibleo”. Sembrava un comportamento coerente con le posizioni assunte da Crocetta quando era candidato alla presidenza e aveva sostenuto la campagna contro le trivellazioni nel Canale di Sicilia, sintetizzata dallo slogan “U mari nun si spirtusa”.
Ma, nel corso di quest’anno, fatti concreti più rilevanti sono andati nella direzione opposta.
A gennaio Crocetta ha ritoccato le royalties (somme versate allo Stato o alla Regione in proporzione alle quantità estratte) per l’estrazione del petrolio riducendole dal 20 al 13 per cento, dopo che, appena un anno prima le aveva aumentate dal 10 al 20%. Una percentuale, quest’ultima, voluta soprattutto dal M5S e mai entrata in vigore, perchè sarebbe divenuta operativa solo da quest’anno.
La progressione reale sarebbe stata quindi dal 10% al 13% ma sono molto significative le dichiarazioni del Governatore, non più preoccupato della difesa dell’ambiente ma della “depressione per lo sviluppo economico” e quindi desideroso di trattenere sull’Isola i petrolieri, i loro investimenti e le loro promesse di creare nuovi posti di lavoro.
Il timore per la fuga delle aziende petrolifere e per la perdita di posti di lavoro, in seguito all’aumento delle royalities era stato espresso a maggio 2013 anche dai sindacati in una lettera al Commissario dello Stato,
La norma che introduceva la royalty al 13% prevedeva l’abolizione della franchigia, vale a dire il bonus fiscale sulla prima parte di greggio estratto, in base al quale le compagnie non pagavano anche fino a 300 mila barili di petrolio prodotto ogni anno (e per ogni giacimento) e in teoria potevano estrarre greggio senza pagare una lira se restavano entro la quota libera da tassazione.
Il comma due dell’articolo 5 della legge finanziaria che prevedeva queste modifiche è stato però impugnato dal Commissario dello Stato perchè il legislatore “non si preoccupa di quantificare le evidenti minori entrate e la conseguente copertura dell’onere derivante“.
Rimane aperto il problema delle procedure di controllo sulla quantità di idrocarburi effettivamente estratti. Il controllo dovrebbe essere fatto, per la Sicilia, dall’URIG (Ufficio Regionale Idrocarburi e Geotermia), ma … chi controlla i controllori?
La preoccupazione per l’ambiente, scomparsa dall’orizzonte di Crocetta, torna alla ribalta nelle generiche assicurazioni dell’assessora Vancheri sull’impegno delle aziende a migliorare il loro impatto ambientale e per bocca di Marco Forzese, esponente della maggioranza di governo, secondo cui l’aumento delle royalties dal 10 al 13 %’, criticato da opposizione e petrolieri, dava “un concreto aiuto ai Comuni in cui ricadono le aree industriali petrolifere che grazie proprio alle royalties potranno investire risorse nelle bonifiche e nella tutela dell’ambiente”.
Paradossalmente i soldi che sarebbero andati ai Comuni (le royalties vanno ripartite per 1/3 alla Regione e per 2/3 ai comuni nei cui territori ricade il giacimento) dovevano essere usati non per assicurare i fondamentali servizi sociali ma per bonificare l’inquinamento prodotto dagli stessi petrolieri….
Inquinamento ambientale
Sebbene sia rimasto in ombra, schiacciato dai timori per la crisi economica, il problema dell’inquinamento ambientale è di importanza fondamentale.
Da prendere in considerazione innanzi tutto il rischio di un eventuale incidente, e sarebbe tale anche un copioso sversamento, che causerebbe danni incalcolabili sulle nostre coste.
Sebbene i cosiddetti ‘esperti del settore’ ritengano che questa eventualità sia improbabile e che, nel caso si verificasse, sarebbe possibile operare interventi radicali di ‘mitigazione’ (panne galleggianti, skimmer, etc.), altri tecnici non concordano.
Legambiente nel recente dossier “Canale di Sicilia, da favola blu a incubo nero” ricorda che il “Piano di pronto intervento nazionale per la difesa da inquinamenti di idrocarburi o di altre sostanze nocive causati da incidenti marini”, approvato nel novembre 2010, considera che “le varie tecniche di rimozione, pur combinate tra loro e nelle condizioni ideali di luce e di mare, consentono di recuperare al massimo non più del 30% dell’idrocarburo sversato”. Una percentuale che tende rapidamente a zero con il peggioramento delle condizioni meteo-marine.
Ma non è grave solo il rischio di incidente. In condizioni normali le attività di estrazione e prospezione generano comunque la desertificazione del fondo marino e danneggiano pesantemente importanti attività economiche, come la pesca e il turismo. E dire che quest’ultimo dovrebbe, e potrebbe, essere la risorsa più importante della nostra Isola.
Anche le attività propedeutiche alla ‘coltivazione’ di idrocarburi hanno un pesante impatto ambientale. Secondo GESAMP (consorzio di esperti creato in collaborazione con Unesco, Fao, ONU, OMS) un pozzo esplorativo scarica in mare, intenzionalemnte o accidentalmente, tra le 30 e le 120 tonnellate di sostanze tossiche.
I rischi ambientali sono particolarmente gravi per il Mediterraneo, un “bacino semichiuso con lentissimo ricambio di acque, fortemente antropizzato e ricchissimo di biodiversità”, come ci ricorda il dossier del WWF “Milioni di regali. Italia:Far West delle trivelle“.
Ma non basta. Il Mediterraneo è anche uno dei primi luoghi del pianeta come meta turistica, ha un’altissima concentrazione di beni culturali e primeggia per le esportazioni agricole di qualità.
Siamo sicuri che trivellare questo mare sia la scelta più appropriata? E in un contesto così anche un piccolo incidente sarebbe ferale.
Ci sono poi alcune direttive europee a cui bisognerebbe adeguarsi. La 2013/30/UE, sul rafforzamento delle condizioni di sicurezza ambientale delle operazioni in mare nel settore degli idrocarburi, impone alle compagnie petrolifere di redigere un’accurata relazione sui grandi rischi e su eventuali incidenti che possono verificarsi.
Richiede inoltre al Governo, in fase di rilascio delle autorizzazioni, di verificare se ci sono tutte le garanzie economiche, da parte della società richiedente, per coprire i costi di un eventuale incidente durante le attività, e di applicare tutte le misure necessarie per individuare i responsabili del risarcimento in caso di gravi conseguenze ambientali fin dal rilascio dell’autorizzazione.
Deve essere recepita entro due anni dalla sua approvazione dagli stati membri e per gli impianti esistenti entrerà in vigore non prima di cinque anni. Legambiente chiede tuttavia che le disposizioni siano prese in considerazione dal Governo e dai ministeri competenti “fin da subito”.
Il nuovo Protocollo di intesa
Il 4 giugno di quest’anno a palazzo d’Orleans è stato firmato un protocollo d’intesa con Assomineraria, Edison, Irminio e la stessa Eni per lo sfruttamento delle risorse minerarie dell’Isola con particolare riferimento all’area marina di fronte la costa ragusana (dove insiste il progetto per la nuova piattaforma di Edison Vega B e i progetti dell’offshore Ibleo) e a terra, sempre nella provincia di Ragusa
TRIVELLAZIONI – articoli correlati su argocatania.org
- 29.07.13 – Non bucate il mare
- 18.04.13 – Interviene la Consulta, no alle trivelle facili
- 08.08.12 – Il mare di Sicilia non si tocca, meglio l’oro blu dell’oro nero
- 14.09.11 – Allarme trivelle, Mediterraneo a rischio
- 06.05.11 – Riparte la corsa al petrolio nel Canale di Sicilia
- 15.11.10 – Trivellazioni in Val di Noto, tutti contrari. O quasi
- 15.09.10 – Canale di Sicilia, trivelle sui giardini di corallo
Alla Regione vien chiesto di garantire l’avanzamento delle procedure autorizzative secondo i tempi stabiliti e di mantenere una normativa stabile, soprattutto per quanto riguarda le royalties, e in linea con quella nazionale.
“Eppure – leggiamo nel rapporto di Legambiente – le condizioni continuano ad essere estremamente vantaggiose per le società che estraggono, prevedendo contributi in mare pari al 10% e un’esenzione dal pagamento per le prime 20mila tonnellate estratte a terra e 50mila a mare di petrolio e 25milioni di metri cubi di gas a terra e 80 milioni a mare di gas”.
In cambio le Società si impegnano a garantire gli investimenti (2,4 miliardi nei prossimi 4-5 anni) e il rilancio occupazionale connesso alle attività estrattive.
Le scelte della Regione siciliana sono in linea con quelle nazionali. Il ministro per lo sviluppo economico del governo Monti, Corrado Passera, intendeva raddoppiare le estrazioni in Sicilia fino a soddisfare il 20 per cento della domanda e abolire il limite di dodici miglia di distanza dalla costa. In analoga direzione vanno le dichiarazioni del ministro Guidi e dello stesso Presidente del consiglio Matteo Renzi, che ritengono le riserve di fossili determinanti per lo sviluppo energetico nazionale.
Quantità di greggio e di occupati
Ma quali sono le quantità di petrolio stimate sotto il mare italiano? Si tratta di appena 10 milioni di tonnellate che, stando ai consumi attuali, si esaurirebbero in soli due mesi. Se consideriamo anche quelle presenti nel sottosuolo si arriva a 82 milioni di tonnellate, sufficienti a soddisfare il consumo per meno di 17 mesi.
Vale la pena allora di rilanciare l’estrazione di idrocarburi e di correre i rischi ad essa legati?
Anche sul piano dell’occupazione dovremmo interrogarci sulle prospettive reali e valutare anche i posti di lavoro bruciati dalla crescita delle trivellazioni soprattutto nei settori della pesca e del turismo.
Secondo Legambiente, inoltre, “investire oggi in efficienza energetica e fonti rinnovabili porterebbe nei prossimi anni i nuovi occupati a 250 mila unità. Ossia più di 6 volte i numeri ottenuti grazie alle nuove trivellazioni”.
La disperazione dei dirigenti della regione siciliana e’ cosi’ palpabile che si taglia con il coltello.