La storia di Pippa e i racconti di Lorena

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Ogni vita attende qualcuno che la narri per vivere dopo la morte, per diventare leggenda. La vita di Pippa, operaia di 17 anni della Manifattura tabacchi di Catania negli anni cupi del fascismo, sarà ricordata perché è stata resa visibile da Lorena Salerno, un’ insegnante dell’istituto Fermi di Catania che quella storia l’ha sentita vibrare nel suo cuore.
Lorena è molto amica del figlio di Pippa, Salvatore Reale, e quando questi perse la madre lei pensò di stargli vicina a suo modo, scrivendo di questa donna che aveva conosciuto e che tanti episodi della Catania che non c’è più avrebbe potuto narrare.
Ha così ricostruito la storia della tabaccaia, descritto i luoghi, fatto ricerche, raccolto pareri e testimonianze di chi l’aveva conosciuta. Ha buttato giù uno scritto –un po’ storia , un po’ romanzo– al quale sono state affiancate le foto (autentiche queste). L’uno e le altre sono state assemblate da un amico tipografo. Ed è nato un piccolo libro-ricordo (del quale Argo vi ha parlato nei giorni scorsi) e che attraverso Giovanni Caruso del Gapa è arrivato a Riccardo Orioles e, come e-book, è stato allegato a I Siciliani giovani.

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Ora una casa cinematografica di Siracusa sta girando un documentario sulla Manifattura mentre la stessa Lorena Salerno sta riscrivendo la storia di Pippa per il teatro su imput del Gapa che vuole tenere a battesimo un progetto rivolto alle donne emarginate del quartiere di San Cristoforo.
Ma Lorena Salerno il “vizio” di scrivere non lo ha perso e di storie-racconti ne ha inventati altri, in un linguaggio mutuato dal dialetto, quasi una trasposizione. Eccovene due, il primo si intitola ” Pasta di mandorla”. Il secondo “Achille”.
 
PASTA DI MANDORLA
“Sto bene mammuzza, a fine mese partirò. Ancora non so la destinazione, troverai mie notizie dal farmacista. Tuo Pietro”
11 giugno 1942
Sotto un sole torrido il soldato Pietro incollava le sue scarpe di cartone di dotazione dell’esercito. Era stato assegnato, con il grado di sergente maggiore, al caposaldo numero 2, ma i suoi pensieri seguivano il disordine della sua mente, come avrebbe potuto dirlo alla madre?
“A mammuzza a quest’ora starà morendo di caldo, in quel paese non soffia un alito di vento, almeno qui arriva ogni tanto la brezza del mare …”. Di questo parlava con i commilitoni suoi compagni, fumando qualche sigaretta, in attesa del turno di vigilanza.
“Godiamocelo ora questo bello caldo ca poi in Russia u friddu ni pigghia u culu”. “Io non ci voglio andare in Russia e poi …chi glielo dice a mammuzza.?”
Pietro con maestria, come un consumato ciabattino, dopo aver incollato le scarpe cercava di ricucirne la suola con ago e filo. Solo un paio gliene avevano fornito quelli dell’esercito e mentre cuciva la suola si spurtusava le dita .
Quanto avrebbe dovuto camminare ancora? In quale direzione questa volta?
Avrebbe potuto comprare quelle di seconda mano che il commilitone Santamaria vendeva sotto banco, ma i soldi li aveva dovuti spendere per un paio d’occhiali nuovi con la montatura dorata perché la vista purtroppo era peggiorata. Dopo la laurea vedeva le figure sia da vicino che da lontano sfocate e tutte avvolte in una nebbia artificiale.
“Ti si rovinano l’occhi rizzi” ancora sentiva l’espressione di so matruzza. “Non stare così vicino che annorbi” gli ripeteva con ossessione. Con i nuovi occhiali aveva assunto un’aria buffa, i compagni lo chiamavano “u prufissuri” e spesso si divertivano a prenderlo in giro.
“Prufissuri di sta minchia….a che ti serve a laurea, cca i paroli nun cuntanu, ca chiddu ca cunta è a piddazza” ridevano i suoi compagni. “Professor di stò belin“…diceva un altro e giù risate da morire.
Quanti mali paroli, se le avesse sentite la mammuzza si sarebbe scrupuliata tutta e si sarebbe fatta il segno della croce perché religiosissima era, portava il lutto stretto da quando le era morto di spagnola il marito reduce della grande guerra e mai e poi mai avrebbe pensato che Petro, Petrino, Petruzzo, Piè, curinedda del suo cuore, un giorno sarebbe dovuto partire in guerra.
Glielo aveva promesso l’avvocato Tornabene quando era andata nel suo studio per la raccomandazione. “Avvocato la prego, lo so quando la patria chiama bisogna andare ma me lo faccia restare in Sicilia, ci parrassi lei con i generali”.
L’avvocato era rimasto ad ascoltarla ma poi con lo sguardo famelico le aveva guardato il cammeo che portava all’incrocio della scollatura, con la foto del marituzzo morto e Maria, donna morigerata, aveva fatto finta di non capire.
Con tanti sforzi da vedova era riuscita a farlo laureare, il suo Pietro, in cuor suo lo avrebbe voluto dottore ma a Pietro piaceva il latino e il greco e aveva ripiegato su una laurea in lettere classiche.
E si era laureato con centodieci senza lode. Per la festa di laurea avevano rimandato a dopo la guerra. “Beddu figghiu mio ricordati di comprare i bomboneri per i parenti quando torni, beddu figghio mio prufissuri” cosi gli aveva scritto nella cartolina postale.
Ed ora che se ne faceva della laurea? Doveva andarsene in Russia… “Prufissuri ma a Russia unni è? E’ vero che ci sono le donne con i baffi?” rideva il secco commilitone Buccheri.
La sera nelle brandine, voci di soldati rimbombavano nella camerata per esorcizzare e cercare di vincere quella diffidenza verso il popolo nemico e comunista nascondendo anche quella fottuta paura di morire.
Certe cose si sentono nel cuore e la Russia appariva sinistra, un brutto presagio , i racconti alimentati dalle fantasie popolari facevano immaginare il fantomatico cosacco orribile e sanguinario. I poveri commilitoni dell’esercito siciliano si gasavano sentendosi scelti per compiere l’azione che li avrebbe fatti diventare unici.
“La campagna di Russia ci renderà eroi, sconfiggeremo i comunisti, ogni soldato diventerà unico.” diceva all’adunata il comandante. Ma unici di che? Pensava Pietro sull’attenti.
I giorni passavano e il battaglione Sicilia perdeva l’ottimismo. Pietro aveva nostalgia della sua terra, delle stanze di casa sua, del suo letto, della cotognata, delle paste di mandorle . “Pietro beddu figghiu mio, ti mando le paste di mandorle per te e i tuoi compagni.”
Quando era arrivato il pacco con le trentadue paste di mandorle non sapeva dove nasconderlo. Di nascosto se le ingoiava con voracità famelica e per non farsi vedere se le spezzettava e le poche briciole razionate se le metteva in tasca e se le centellinava. A volte invece le spezzava a metà per farle durare di più, poi ne leccava lo zucchero riempiendosi gli angoli della bocca di una polvere bianca e farinosa che i suoi compagni pensavano farina.
E in Russia dove le avrebbe trovate le paste di mandorla…? “Prufissuri chi leggi tutta a notti, spegni stu lumi” gli dicevano i compagni nella camerata. “Appoi diventi orbo e ti devi comprare altri occhiali”
Pietro conservava le lettere che gli arrivavano dalla cugina Remigia, piene di mollichine che con il tempo diventano dure come pietre preziose.
Leggeva e rileggeva perché non riusciva a prendere sonno quella sera, era agitato per la Russia e perché il capitano Bonsanti la mattina l’aveva mandato a chiamare.
“So che lei è un professore” gli aveva chiesto senza neanche guardarlo negli occhi “Professore di cosa?” “Di materie umanistiche in particolare latino e greco” rispose prontamente sull’attenti. “Bravo, bravo. Può andare” . Così il capitano lo aveva congedato.
Pietro si era chiesto il perché di quell’insolito colloquio. I compagni vedendolo preoccupato affondavano il coltello nella piaga. “Talè u prufissuri è preoccupato, il capitano vuole sentire suonare la tromba in latino…” “U capitano furbo è, volpe argentata è…” “Capitano, capitani, capitanis…”
E quella sera Pietro non riuscì a chiudere occhio. L’immagine della cugina Remigia si confondeva con quella della sua mammuzza e quella della sua mammuzza si confondeva con quella del capitano.
“Fra poco è il tuo compleanno ti invio un pacco al fermo posta con le dilizie
Si vociferava che in Russia sarebbero andati gli avanzi di galera, i più coraggiosi, il battaglione Sicilia era di stanza fra Gela e Licata, come truppe anti-sbarco da utilizzare per le manovre militari in Nordafrica, ma dopo un anno bisognava formare dei nuovi battaglioni, era pronta una selezione e alcuni nomi facevano parte proprio della lista del battaglione Sicilia. Fra l’altro fughe di notizie confermavano che le armi erano scarse e scadenti, non c’erano pezzi di ricambio e andare in Russia significava non tornare. I giorni passavano in un silenzio sempre più surreale, la sera non si rideva più e tutti aspettavano la lista e la destinazione.
Pietro sognò, la sera prima di essere convocati, che lui e il camerata Sciuto si lavavano i capelli con il ghiaccio e se li ritrovavano tutti in mano perché si spezzavano come spaghetti crudi.
Il battaglione arrivò in Russia il 1 settembre del 1942 su una tradotta militare simile ad un carro bestiame, il viaggio fu estenuante e massacrante, il capitano Sciuto ebbe un mancamento per ben tre volte, il commilitone Pietro invece non salì sul quel treno.
Era rimasto di stanza a Licata dove faceva lezioni private a Maddalena la figlia del capitano il quale la sera prima della convocazione aveva fatto cancellare il nome di Pietro dall’elenco. Maddalena era deboluccia nelle materie umanistiche soprattutto in latino e greco e mentre lei con i suoi occhi dolci declamava a voce alta il suo rosa, rosae, Pietro la guardava appallottolando nella tasca le sue gustose mollichine di pasta di mandorla che gli parevano davvero una rosa preziosa e profumata.
Avolese Daniele
Buccheri Carmelo
Bulla Salvatore
Coco Andrea
Caccamo Agatino
Cordella Mario
Guardo Giuseppe
Finocchiaro Antonio detto Totò
Santamaria Alfonso
Sciuto Antonio
Zingale Angelo
Nessuno dei suoi compagni siciliani ritornò dalla campagna di Russia.
10 Luglio 2009
A mio padre.
 
ACHILLE
“Signora, io ho un carattere duro, sono determinata, quando programmo una cosa devo realizzarla a costo di sacrifici, signora sa, io ho avuto una vita relativamente tranquilla, non mi posso lamentare. Ho concluso gli studi, mi sono diplomata … quanto mi piaceva l’italiano, amavo Leopardi, quanto mi piaceva! con quella tristezza insistenziale … no, aspetti, esistenziale, si ecco questo è il termine giusto. No, signora, non rida, ogni tanto storpio le parole, questo difetto me lo porto dalle scuole lementari, lo dicevano sempre a mia madre: ‘è intelligente, però scambia i termini’ e mia madre ci stava attenta, ogni volta che sbagghiavo una parola, un pizzolone mi dava.
Intanto a casa nostra era proibito parlare il siciliano, a scanso d’equivoci, ah! no,signora mia, nessun vocabolo in dialetto. Mio padre poi, si arrabbiava:”figlia unica sei ma ‘a parrari italiano, solo io pozzu sbagghiare, non ho fatto le scuole, ma tu pupidda mia italiana sei e italiano a parrari!”
Che le dicevo … scusi signora … divalgo sugli argomenti …ah si le dicevo, che non mi posso lamentare nella mia vita, ho concluso le scuole, mi sono dipromata anche se non ho preso il massimo per un pelo. Non me ne parli, signora. La professoressa me lo diceva: Graziana, sei stata vittima di un’ingiustizia, alla figlia dell’avvocato hanno messo il massimo e a te, rispetto parlando per tuo padre, … e mi lasciava intendere che seccome era operaio… per i figli dell’operaio voti massimi non ce n’è! Ma a me non mi interessa niente m’interessa… io me ne frego -signora mia- io sono quella che sono e a testa alta me ne vado anche se ho preso trentasette!
Pultroppo ancora non ho trovato un lavoro stabile, ma da sola, cocciuta come un asino, ho imparato a fare la ricostruzione delle unghie, metto il gel, disegno la franch, ci inserisco qualche decoro plissettato e … non perché sono io ma le clienti troppo contente rimangono. Mi dicono: Graziana, ma tu sei troppo braaaaava, tu non le fai troppo bombate le unghia che si vedono che sono finte!- e io mi accontento, signora. Fra l’altro il dieci agosto mi sposo, già ho quasi tutto la mobilia, solo il salotto mi manca, ma signora tanto le case moderne non sono più come quelle di una volta, si arredano a poco a poco, una vede un mobile e dice: questo mi piace – e se lo accatta; poi passa un altro mese vede un altro mobile e se lo accatta.
Il mio ragazzo come me è, lui basta che c’è la cucina pronta è tranquillo. Si, la cucina, perché gli piace mangiare, ora glielo ho detto: – Salvo, mettiti a dieta che ci devi entrare nel vestito il dieci agosto.- Lui, buono è, signora, sorride è un vero palcioccone … come si dice, insomma avi u cori bonu. Però certe volte mi fa arrabbiare, ma io … signora in tutto tre o quattro volte mi sono arrabbiata veramente. Lo sa i buoni quando si arrabbiano? diventano teribbili, ostinati. Io così sono. L’altro giorno me ne ha combinata una, che ancora tutta scioccata sono. Era la festa di sant’Agata, lei lo sa signora, i devoti come sono … è da quindici anni che indosso il sacco, devota sono … per via di quel problema di mia madre, perché con quella gamba offesa zoppica, allora io mi sono rivolta alla santa e le ho detto:
– Sant’Agatuzza se la fai zoppicare di meno, io ti porto il cero a vita. Signora, lei non ci crederà, ma mia madre zoppia di meno! si sente meglio. Mi ha detto:
– Grazianedda a mamma, le tue preghiere ci volevano! – allora io a costo di tutto, il cero ci porto a sant’Agatuzza bedda. Insomma l’altra sera ero rimasta che mi veniva a prendere il mio ragazzo, mi ero preparata, signora, le scarpe basse e vestita a strati, che l’anno scorso sono tornata a casa con le lacrime di quanto è che mi facevano male i piedi, mi sono preparata e aspettavo. Nella mia testa mi ero fatta un programma, ci porto il cero, vado da Achille, mi compro il torrone e mi guardo i fuochi del tre. Signora, un anno che aspettavo la festa ! mi telefona alle otto meno un quarto il mio ragazzo:
– Graziana, non posso venire, mi sento male! –
– Come non puoi venire? Io ha … che sono pronta! –
– Graziana sono troppo stanco! –
– Avaia, non mi fare scherzi –
– Graziana, non scendo, non ti arrabbiare –
Allora signora, gli ho chiuso il telefono, ma morta ero, già erano le otto, mio padre non mi fa uscire da sola con la macchina perché si spaventa che me la rubano, signora … mi sono messa il pigiama, incazzata nera, e ho pensato: a bestia sugnu io che credo agli altri! Il cero? ora che faccio, quando glielo porto? E Achille? È un anno che aspetto questo momento, io signora non ne mangio mai perché sono vegetariana, ma per sant’Agata, signora, un panino con la carne di cavallo di Achille non me lo leva nessuno.! Mi sistemo lì vicino al focone e non me ne vado fino a quando Achille non mi dà la fetta più grande e più grossa! certe volte anche il bis mi prendo. E quando mi faccio pazza, macari le polpette assaggio.
Achille quanto è pulito, abbissato, con quel grembiule bianco, con quegli occhi neri, come due tizzoni quando gira la carne, con tutto quel fumo che gli fa da aureola signora … pare circondato come se uscisse da una nebbia profumata, poi con quelle mani bianche prende quelle fettine … come le gira sul focolare … signora, sembra un prestidigiatore … certe volte, quanto suda troppo, si mette anche un cappellino verde … ma signora gli occhi neri si vedono lo stesso!. Poi quando sorride, si illumina tutto! A me mi conosce e mi dà la fettina più morbida! Ha una carne di cavallo, che nessuno ce l’ha in tutta Catania! tenera, saporita, di colore rosato, non rosso secco, ma un rosso pallido, che si capisce che carne buona è!
Signora, io, non ne mangio mai … glielo ripeto, ma ci sono rimasta troppo male, come? aspetto un anno Sant’Agata e tu non mi porti alla festa a mangiare la carne?
Mio padre mi ha detto: – Graziana, non fare così, che ti accompagno io a mangiare la carnee! – No, papà che c’entra non ci voglio andare più, se me lo diceva prima mi organizzavo, ora non ci voglio andare. Mi sono fatta la pastina con l’olio – signora – e mi sono andata a coricare. Veleno! quella pastina! Tutta la notte pensando ad Achille! Ora devo aspettare un altro anno per andarci!
L’indomani il mio ragazzo mi ha telefonato, ma io non mi sono fatta trovare: ’a moriri, ho pensato! m’appizzasti a festa! Signora, come un cane ha fatto tre giorni, poi che vuole, io buona sono perché più di tre giorni il bloncio non lo so tenere, allora gli ho detto che lo perdonavo. Signora, non perché è il mio ragazzo, ma ha il cuore troppo grande. Io non ci rinuncio alla festa manco morta! all’ottava mi porta, sì me lo ha detto, la Santa tanto mi perdona anche se in ritardo di otto giorni e poi signora mia … come me lo posso perdere Achille? a seggia mi porto questa volta, tre panini mi devo mangiare ! tre panini sani, sani. Perchè senza carne di cavallo che festa di sant’Agata è ? Signora, io ci tengo e lei che mi conosce lo sa. Devota sugnu,devotissima.
8 febbraio 2009

3 Comments

  1. “Pasta di Mandorla” mi ha fatto commuovere, “Achille” lo avevo giá letto, ma rileggerlo é stato un piacere! Grazie Lorena

  2. mi sembra molto attenta l’analisi di questi personaggi che sembrano parlare direttamente al lettore. mi è molto piaciuto lo stile di questa scrittrice, ammiccante e al tempo stesso profondo. Complimenti di cuore!

  3. Con la leggerezza e la delicatezza di una piuma,sa volteggiare,accarezzare e raccontare la storia della sua citta’. Attraverso i personaggi con una storia ed un vissuto profondo alle spalle,riesce ad emozionare il lettore facendolo sentire parente o amico di Pippa e degli altri, essi potrebbero essere i nostri nonni, padri, madri, zii che ci narrano la storia della loro vita come fosse una “favola vera”.Brava Lorena!

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