E’ proprio vero che la crisi economica porta spesso cattivi consigli. Sembra infatti che sia allo studio del Ministero della Difesa il progetto di riconvertire l’Arsenale navale di Messina in un centro per smaltire navi militari della Nato in disarmo.
L’allarme è stato sollevato anche in sede parlamentare e il Ministro Di Paola, chiamato in causa, per un verso ha minimizzato e per l’altro lo ha presentato come una possibilità che consentirebbe al sito militare messinese di mantenere alti i suoi livelli produttivi e occupazionali.
Ciò comporterà fra l’altro investimenti per circa 25-30 milioni di euro, necessari per la costruzione all’interno dell’arsenale di “aree per l’accumulo di materiali da smaltire” e degli impianti necessari per la sicurezza ambientale. Si tratta infatti di un’attività pericolosa che presenta rischi elevati per la salute umana e per l’ambiente in quanto i lavoratori verrebbero in contatto con innumerevoli agenti inquinanti, rifiuti tossici e speciali.
E’ quanto viene messo in rilievo da uno studio della Commissione dell’Unione Europea risalente al maggio del 2007, Il Libro Verde – Per una migliore demolizione delle navi.
Dovendo infatti smantellare imbarcazioni militari costruite tra gli anni ‘60 e i primi anni ’80, non è difficile pensare che si avrà a che fare con quantitativi “relativamente elevati” di materiali pericolosi.
“Con le navi destinate alla rottamazione tra il 2006 e il 2015, si prevede che nei cantieri di demolizione confluiranno circa 5,5 milioni di tonnellate di materiali potenzialmente rischiosi per l’ambiente, in particolare morchie, oli, vernici, metalli pesanti, PVC, PCB (bifenili policlorurati) e amianto”, annota lo studio UE.
Sempre secondo la Commissione, le morchie derivanti dalle navi da rottamare inciderebbero annualmente per 400.000-1.300.000 tonnellate, l’amianto per 1.000-3.000 tonnellate, il tributilstagno (TBT) per 170-540 tonnellate, le “vernici nocive” per 6.000-20.000 tonnellate.
Lo studio della Commissione europea mette inoltre fortemente in dubbio la convenienza economica dell’operazione per due motivi.
Innanzitutto perché in ambito europeo esistono numerosi cantieri e arsenali navali già attrezzati per fare questo lavoro in condizioni di sicurezza. In secondo luogo perché sono presenti sul mercato mondiale, per esempio in Bangladesh e in India, arsenali che, sfruttando a costi bassissimi la manodopera locale e, non essendo obbligati a sostenere particolari spese per il rispetto della salute e la sicurezza negli impianti, sono in grado di offrire gli stessi servizi a costi assolutamente insostenibili per gli impianti europei.
“Finché non ci sarà parità di condizioni sotto forma di norme obbligatorie efficaci e valide per le attività di demolizione delle navi a livello mondiale, gli impianti europei avranno sempre difficoltà a competere sul mercato e i proprietari delle navi tenderanno sempre a dirigere le loro navi verso siti asiatici che non soddisfano gli standard minimi”, conclude il documento dell’UE.
In ogni caso esistono già in Turchia, paese membro della Nato, strutture opportunamente attrezzate per offrire questo servizio.
Perché allora non sforzarsi di immaginare per il nostro porto militare una ipotesi di riconversione capace di coniugare salute e occupazione, per non fare dell’Arsenale di Messina un altro caso ILVA, sia pure in sedicesimo?
Di tutto ciò fa un ampio resoconto A. Mazzeo in un articolo pubblicato sul suo blog a cui rinviamo per esteso.
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