“Credo di aver capito la nuova regola del gioco: si uccide il potente quando avviene questa combinazione fatale, è diventato troppo pericoloso ma si può uccidere perché è isolato“.
Si possono applicare a Carlo Alberto Dalla Chiesa, al suo assassinio, avvenuto trenta anni fa, il 3 settembre del 1982, le parole da lui stesso pronunciate in una intervista concessa a Giorgio Bocca il 10 agosto, poche settimane prima della morte.
Il generale le aveva usate a proposito dell’omicidio Mattarella e di quello del procuratore Costa, un uomo politico e un magistrato, entrambi rimasti soli, il secondo per aver deciso, contro la maggioranza della procura, di rinviare a giudizio gli Inzerillo e gli Spatola e quindi “cancellato come un corpo estraneo”. In una solitudine simile si troveranno altre vittime della mafia, fino a Falcone e Borsellino.
Dalla Chiesa, arrivato a Palermo come prefetto nel maggio dell’82, era già stato in Sicilia (nel 49 a Corleone e dal 66 al 73 a Palermo, dove aveva svolto indagini anche sulla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro) e conosceva abbastanza bene la situazione, sulla quale la sua analisi si era molto affinata.
Aveva capito che la mafia non era solo una questione della Sicilia occidentale, perchè “oggi la mafia è forte anche a Catania, anzi da Catania viene alla conquista di Palermo”. Tanto che “le quattro maggiori imprese edili catanesi oggi lavorano a Palermo”.
Aveva capito che il soggiorno obbligato era ormai, con i moderni mezzi di comunicazione e di spostamento, uno strumento inutile e che la mafia aveva già messo radici in molte città del Nord.
Voleva quindi creare, nelle prefetture di varie città italiane, oltre naturalmente che in tutte le provincie siciliane, centri antimafia alle sue dipendenze dirette. E ancora: avere facoltà di istruire indagini finanziarie, ordinare intercettazioni telefoniche ed ambientali, essere in stretto collegamento con i servizi segreti ed avere un nucleo di ufficiali di sua assoluta fiducia.
Erano questi i poteri speciali che aveva cercato in tutti modi di ottenere dal governo. Gli erano stati promessi a parole, ma non gli furono mai conferiti.
“La Mafia ormai -disse a Bocca- sta nelle maggiori città italiane dove ha fatto grossi investimenti edilizi, o commerciali e magari industriali. Vede, a me interessa conoscere questa ‘accumulazione primitiva’ del capitale mafioso, questa fase di riciclaggio del denaro sporco, queste lire rubate, estorte che architetti o grafici di chiara fama hanno trasformato in case moderne o alberghi e ristoranti a la page. Ma mi interessa ancora di più la rete mafiosa di controllo, che grazie a quelle case, a quelle imprese, a quei commerci magari passati a mani insospettabili, corrette, sta nei punti chiave, assicura i rifugi, procura le vie di riciclaggio, controlla il potere”.
Troppo pericoloso quest’uomo, troppo “profetico”, meglio eliminarlo. E, ancor prima, fargli perdere la faccia. Palermo registrava quasi un morto al giorno e questo non giovava al suo prestigio; i politici, locali e nazionali, gli negavano udienza. Dalla Chiesa capiva di essere rimasto isolato, ma sperava ancora. E riteneva di poter raggiungere risultati positivi:
“Mi fido della mia professionalità, sono convinto che con un abile, paziente lavoro psicologico si può sottrarre alla Mafia il suo potere. Ho capito una cosa, molto semplice ma forse decisiva: gran parte delle protezioni mafiose, dei privilegi mafiosi certamente pagati dai cittadini non sono altro che i loro elementari diritti. Assicuriamoglieli, togliamo questo potere alla Mafia, facciamo dei suoi dipendenti i nostri alleati“.
Anche in queste affermazioni c’è una grande, attualissima intuizione: la mafia si sconfigge risolvendo i problemi sociali ed economici che spingono molti, soprattutto i giovani, a entrare nelle sue file.
Eppure forse non basta nemmeno la lungimiranza del generale a spiegare la sua morte. Dopo tutto la mafia cura soprattutto i propri affari e non è detto che le convenga uscire allo scoperto, nemmeno per annientare un nemico.
“Ma chi cazzo se ne fotteva di ammazzare Dalla Chiesa. Ma perché dobbiamo sempre pagare noi le cose. E perché glielo dovevamo fare questo favore. Non l’ho capito, questo spingere determinate esasperazioni. Perché farci mettere nel tritacarne. Chi è l’orchestratore io non te lo dirò mai. Salvo, noi a parole non possiamo risolvere e capire tutte cose, però ti dico che soltanto i politici si possono infilare sotto quell’ombrello. Tu vedrai che nei vari processi, i politici saranno quelli che non avranno problemi”. Sono le parole pronunciate dal boss Giuseppe Guttadauro in un colloquio intercettato con Salvatore Aragona. Parole inquietanti, citate nel blog Articolo 3, che ripropongono interrogativi ancora senza risposta sui mandanti occulti di questo delitto.
Altri interrogativi, altrettanto inquietanti e molto specifici, rimangono ancora senza risposta. Li ripropone il figlio, Nando, ricordando anche particolari che, dopo trenta anni, rischiano di essere dimenticati, come la scomparsa dei documenti dalla cassaforte del generale e lo strano ritrovamento della chiave di questa cassaforte là dove era stata attentamente e inutilmente già cercata.
Zone d’ombra, di cui parla anche la sentenza emessa al processo in cui sono stati condannati i suoi assassini. «Si può, senz’altro, convenire con chi sostiene che persistano ampie zone d’ombra, concernenti sia le modalità con le quali il generale è stato mandato in Sicilia a fronteggiare il fenomeno mafioso, sia la coesistenza di specifici interessi, all’interno delle stesse istituzioni, all’eliminazione del pericolo costituito dalla determinazione e dalla capacità del generale».
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