E’ proprio vero che l’attuale ministro dellla Difesa, l’ammiraglio Giampaolo Di Paola ntende procedere al taglio delle spese militari? Qualcuno nutre dei dubbi. Segnaliamo, su indicazione del Punto Pace di Pax Christi Catania, la denuncia di Flavio Lotti, coordinatore della Tavola della pace, sui rischi che si celano dietro il disegno di legge presentato da Di Paola (“Delega al Governo per la revisione dello strumento militare nazionale”) e attualmente in discussione al Senato.
Secondo Lotti la millantata “riforma” del ministro non cambia il modello di difesa ma si limita a chiedere al Parlamento di votare una delega, che poi ‘ghe pensi mi’. Peccato che, a leggerlo con attenzione, il progetto comporti non una riduzione ma un aumento della spesa pubblica.
Qualche esempio. il ministro vuole ridurre il numero dei militari, di circa 33.000 unità, trasferendoli con un trattamento di favore in altre amministrazioni pubbliche e scaricando quindi su di esse il loro costo (compresi gli enti locali e persino le municipalizzate).Esige inoltre per loro il mantenimento di privilegi (ad es. che non venga applicata la riforma delle pensioni appena approvata) aboliti per gli altri impiegati della Stato.
Allo stesso tempo pretende di mantenere inalterato il bilancio a sua disposizione cosa che comporterà non una riduzione ma un aumento della spesa militare dato che il principio-guida è: meno soldati più armi. Ci teniamo gli stessi soldi, riduciamo il personale e investiamo i “risparmi” per comprare nuove armi.
Anche la vendita delle infrastrutture militari da dismettere non porterà alcun beneficio al bilancio dello stato o alle comunità locali ma dovrà contribuire ad aumentare il bilancio della difesa.
Il ministro pretende inoltre di essere autorizzato a svendere direttamente ad altri paesi le armi di cui vuole sbarazzarsi: in tal modo potrà impegnarsi personalmente nella vendita di armi italiane nel mondo cancellando d’un botto tutte le ipocrisie che circondano l’intreccio tra i militari e l’industria degli armamenti.
La perla delle scelte operate dal ministro resta quella di convalidare l’acquisto dei cacciabombardieri F 35, pur riducendone il numero, in nome della sobrietà montiana, da 131 a 90. Eppure l’ammiraglio Di Paola è di certo a conoscenza dei dubbi che da tempo circolano sulla loro affidabilità tecnica.
Il 20 marzo è stato reso pubblico il rapporto dell’US Government Accountability Office, l’equivalente americano della nostra Corte dei conti, da cui si deduce che gli F 35 sono tutti da rifare.
Vi si legge infatti che “l’apparecchio non vola bene, dà ‘scossoni”; esiste “il rischio che l’aereo possa non svolgere le funzioni chiave di combattimento per il quale è stato ideato”, che ”la trasmissione dati tra elmetto e aereo avviene con lentezza e con scarsa affidabilità, tanto da requisiti di sistema per le missioni per la piena operatività sono stati pienamente verificati”. Insomma, il Governo italiano ha buttato via 17 miliardi di euro per acquistare degli aerei bluff, non verificati nel 96% dei suoi componenti.
E’ quanto scrive Massimo Malerba su Violapost, aggiungendo che i grandi strateghi della nostra Aviazione militare hanno fatto acquistare questo capolavoro dell’ingegneria aeronautica “con la pratica della “concurrency”, ossia quando ancora gli studi, i test a terra e in volo, i collaudi dei singoli componenti non si erano conclusi.”
Il guaio è che nella realizzazione industriale di questo progetto sono coinvolte l’americana Lockheed Martin, capofila del progetto, e Alenia Aeronautica (gruppo Finmeccanica): vi dicono qualcosa questi nomi?
Insomma, una truffa, dalla quale si sono tirati fuori prestamente sia il governo australiano sia quello canadese, che in un primo tempo avevano abboccato all’amo.
Meno male che non ci sono più reni da spezzare alla Grecia, tanto i greci se li sono spezzati da soli, ma certo che investire (?) 17 miliardi di euro nell’acquisto di un cacciabombardiere che è un rottame ancora prima di uscire dalla fabbrica è un bidone che neanche il napoletano più fantasioso sarebbe riuscito a piazzare.
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