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I graffiti del Castello Ursino

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Nel XVI secolo il Castello Ursino era utilizzato come prigione. Il restauro, curato dal prof. Guido Libertini negli anni ’30 del Novecento, mise in luce la presenza di un numero significativo di graffiti, testimonianza dei pensieri e delle proteste di parecchi reclusi. Come scrive Francesco Giuffrida: “il più antico, ad opera del prigioniero Gasparo Nicusea, è datato 1526; il più moderno è del 1813, ‘firmato’ dal recluso Diego La Marca. Tra i due, decine di simboli, disegni, motti, sentenze, e anche due canzoni”.

La più antica, del 1668, è firmata F.co S.do

Chistu è un locu miseru e infelici
locu di crudeltà di vita amara
cha si cuntempla cha si parra e dici
e cha di scuntintizza si va a gara.
Cha si fanu cuntenti li nimici
cha pari a cui furtuna no ripara,
a stu locu si provanu l’amici
e a stu locu si imprindi e s’impara
Questo è un luogo misero e infelice
luogo di crudeltà di vita amara
qua si contempla qua si parla e dice
e qua di infelicità si va a gara.
Qua si fanno contenti i nemici
qua compare chi non ha fortuna,
in questo luogo si provano gli amici
e in questo luogo si apprende e s’impara.

Si tratta di temi classici, rispetto alla situazione, esposti in maniera semplice e sincera: l’infelicità e la sofferenza dei reclusi, la soddisfazione dei nemici, la possibilità di imparare dall’esperienza vissuta.

“Poco più in alto della canzuna del 1668, sullo stesso stipite, si può leggere – è ancora Giuffrida che parla- un’altra canzuna; sotto l’ottavo verso la firma: D. Ioseph Privitera e, ancora sotto, la data: 11 Xbr. 1733.

Ora chi privu su di libertati
Omnes amici mei dereliquerunt
Tanti affanni e martiri mi anu dati
Et omnia membra mea laxa fuerunt
Tutti l’amici mei comu li frati
Sicut iudas mihi tradiderun
Ora pacentia si stu cori pati
Non sine causa peccata fuerunt
Ora che sono privo della libertà
tutti i miei amici mi abbandonarono
Tanti affanni e martiri mi hanno dato
e tutte le mie membra rimasero snervate
Tutti i miei amici come fratelli
come Giuda mi hanno tradito
Ora pazienza se questo cuore soffre
non senza motivo furono commessi i peccati

Latino e dialetto sono alternati, in uno stile che ricorda autori come Pietro Fullone, Antonio Veneziano e, in particolare, Paolo Maura, i cui versi sembrano essere esplicitamente richiamati. Poiché la canzuna dello scrittore di Mineo cui si fa riferimento sarà pubblicata dopo il 1733, secondo Giuffrida: “ il Privitera poteva avere appreso quei versi unicamente sentendoli, ascoltandoli e ritenendoli a mente.Trovatosi poi in situazione analoga a quella del Poeta, la voglia di usare, utilizzare la composizione, gli sarà venuta spontanea e naturale […].Quella del Privitera è una vera e propria variante, non una semplice citazione […] Anche se certamente il recluso del Castello Ursino molto deve a quel Maura, morto già da vent’anni, che gli ha fornito un’ottava stilisticamente ineccepibile, coi quattro distici perfettamente autonomi, ma legati tra di loro per raccontare uno squarcio di vita”.

Colpisce, infine, quanto scritto nel terzo verso nel quale Privitera sembra denunciare di essere stato sottoposto a torture. Il che non sorprenderebbe in quanto in quel periodo (1719-1734) la Sicilia era sottoposta alla dominazione austriaca che aveva lasciato ‘mano libera’ all’Inquisizione.

Le due canzoni citate sono incise sullo stipite sinistro della porta che immette nella sala della Cappella; chi entra nel cortile del Castello si trova questa porta quasi di fronte, lievemente spostata sulla sinistra.

Tratto da: Francesco Giuffrida, La rivista del Galilei, Settembre 2011

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