Riceviamo da una nostra lettrice e volentieri pubblichiamo una recensione sul concerto di Battiato al Teatro greco di Taormina.
La sera di ferragosto, sfidando le capacità recettive di Taormina, naturalmente già piena di suo, Franco Battiato ha concluso, sullo sfondo fantastico del Teatro greco e dell’Etna, il suo tour per l’Italia. Come forse era nelle previsioni, c’è stato il tutto esaurito: i suoi fans, si sa, tagliano trasversalmente tutte le età.
Molti hanno conosciuto e cominciato ad apprezzare Battiato ai tempi del vinile. Non solo i suoi coetanei (o giù di lì), che lo amano visceralmente e restano i più genuinamente entusiasti, ma anche i loro figli, che da bambini mandavano giù a memoria i testi delle sue canzoni, spesso non sempre facilmente comprensibili, ma ricchi qua e là di spunti, immagini concrete, sensazioni, che bastavano da sole a travolgere insieme alla loro musicalità, ora dolce e struggente, ora ritmica ed eccitante.
Negli ultimi decenni Battiato ha intrapreso percorsi sicuramente più raffinati, accompagnati da una ricerca spirituale ispirata dalle religioni orientali, ma una buona parte del popolo che è accorso a sentirlo moriva solo dalla voglia di cantare e in qualche caso di ballare i suoi vecchi pezzi di maggior successo.
E Battiato questo lo sapeva; tanto è vero che per tutto il concerto, ma soprattutto nel primo e nel secondo bis, ha riproposto gran parte di questo repertorio, spesso con nuovi e più travolgenti arrangiamenti.
Se lo avesse fatto solo per ragioni di “cassetta”, ce ne saremmo accorti; ci è sembrato piuttosto un “ritorno” nel tempo e nello spazio, un regalo fatto di cuore, a conferma che né la malinconia (che pure dolcissima ha cantato nelle canzoni francesi), né la rabbia (nonostante le esplicite denunce sulla situazione politica del nostro paese, contenute in alcuni suoi testi del passato e del presente), e neanche il compiacimento, così estraneo alla sua indole umana e artistica, hanno preso il sopravvento.
Analizzando i testi, si potrebbe fare un lungo elenco di parole, fatti, contesti, emozioni che ci appartengono e di molti altri che noi abbiamo digerito senza porci tante domande; lui saprebbe darcene spiegazione e svelarcene il senso, ripercorrendo ricordi ed esperienze della sua giovinezza siciliana.
Ma i ricordi di Battiato sono, in qualche modo, anche i nostri. Uno dei brani classici del suo repertorio (Mal d’Africa) è mancato alla kermesse taorminese. Quanti di noi non ricordano quei pomeriggi interminabili, quando né divertimenti, né computer o iPhone riuscivano a farci superare la noia? Le serrande abbassate, quel silenzio forzato, il papà in canottiera, l’odore di brillantina: eravamo certo un po’ infelici ma l’universo era dentro di noi nel desiderio e nell’immaginazione.
Non ci è piaciuto molto invece il tentativo di Sgalambro di definire in un modo un po’ decadente la “sicilianità”: la Sicilia non è solo un fenomeno estetico e i siciliani non sono un popolo di idealisti ma neanche di “aspiranti naufraghi”.
Il loro (forse eccessivo) realismo li porta a diffidare delle istituzioni (ovviamente), delle ideologie (che annullano l’individuo), delle rivoluzioni (salvo qualche eccezione) e anche delle religioni (duemila anni di cristianesimo non sono riusciti a emanciparli dal dualismo materia-spirito e da un paganesimo idolatra e superstizioso che alla materia assegna comunque il primato).
Ma questa terra ha generato narratori di grande calibro la cui sensibilità artistica è riuscita a penetrare, semplicemente descrivendo scenari naturali e umani, il nocciolo duro dell’animo umano sempre alla ricerca di una felicità perfetta e impossibile.
E Battiato, nel suo piccolo e con le pur debite proporzioni, è fra questi: in quelle sue canzoni che amiamo, sentiamo che i temi universali dell’amore, della giovinezza, della ricerca di Dio, della sete di giustizia, dello stupore davanti alla bellezza, del desiderio della saggezza, calati dentro scenari quotidiani a noi familiari, esprimono la loro irriducibilità, mai acquietandosi in risposte preconfezionate.
E ciò sia sul piano sociale e politico (cambierà? non cambierà?) sia sul piano della soddisfazione individuale, dove l’animale che è in noi non consente fughe spiritualiste, mentre contemporaneamente l’amore (umano, divino?) invoca per sé il superamento dei confini del tempo e dello spazio (La cura).
Eppure è proprio nella sintesi di queste contraddizioni che ci riscopriamo appartenenti a questa storia comune. Prima che l’omologazione del villaggio globale azzeri le differenze, Battiato ci fa percepire che da noi il rapporto con la nostra terra è uno stranu e cumplicatu sintimentu (Veni l’autunnu), l’amore si volge in stranizza d’amuri, e che abbiamo bisogno impellente della compagnia concreta di chi ci ricorda le nostre radici e ci lega in un rapimento al tempo stesso mistico e sensuale (E ti vengo a cercare).
Bentornato, Franco, a casa.
Marina Maugeri