Il 13 luglio si è svolta presso il Tribunale di Catania l’udienza preliminare del procedimento penale che riguarda la facoltà di Farmacia dell’Università etnea, accusata di disastro ambientale e gestione di discarica non autorizzata.
Oggi nelle stesse aule didattiche e nei laboratori sequestrati dai Carabinieri nel 2008, l’attività di ricerca prosegue regolarmente; non ci dovrebbero essere, il condizionale è d’obbligo, condizioni di lavoro pericolose.
Ricostruiamo quanto accaduto. Come scrive Federica Motta, “il sequestro era stato preceduto da un anno di indagini, concentrate sui fatti avvenuti dal 2004 al 2007. E fu seguito dalla denuncia della famiglia di Emanuele Patanè, dottorando deceduto a 29 anni per un tumore al polmone”.
Quest’ultimo, in un memoriale, aveva descritto le assurde condizioni dei locali nei quali si sviluppava la ricerca: “tutti i solventi di rifiuto, cioè quelli che erano stati utilizzati per le reazioni chimiche e per tutte le altre operazioni annesse, venivano posti in dei contenitori in plastica (generalmente da 30 litri) che restavano in laboratorio fin quando si riempivano. Questi contenitori con tutti i solventi e le sostanze di rifiuto venivano posti a terra e al di fuori delle cappe di aspirazione.
Quindi, ogni volta che si aprivano questi contenitori per versarvi i solventi di rifiuto, venivano fuori vapori sgradevoli e sicuramente notevolmente tossici e nocivi, che eravamo costretti a sopportare perché i contenitori si trovavano a terra e non vi era nessun sistema di aspirazione e filtrazione”.
La prima causa di lavoro intentata contro l’Università da parte di un tecnico di laboratorio risale al 2002. I responsabili, dunque, conoscevano la situazione da anni ma sembra che abbiano lasciato che i giovani ricercatori continuassero ad operare in quelle condizioni senza mai informarli o effettuare corsi di formazione, né sembra siano state adottate le procedure minime indispensabili, né che si sia provveduto a dotare ricercatori e tecnici di attrezzature adeguate per la protezione personale e per operare in sicurezza.
Tutto ciò nonostante le precise disposizioni del DPR 303/56, Norme generali per l’igiene del lavoro, prevedano che nei laboratori il ricambio con aria fresca dovrebbe essere di 6-8 volumi/ora. Se, infatti, l’aerazione è inadeguata bastano piccole quantità di sostanze volatili per raggiungere concentrazioni superiori a quelle ammissibili.
Torniamo all’udienza. I parenti di sei vittime e sette malati gravi hanno deciso di costituirsi parti civili. I legali degli imputati (fra questi anche l’ex rettore dell’Università Latteri, morto giovedì 14 luglio) hanno però contestato la costituzione di parte civile di Cittadinanzattiva, Codacons e CGIL e della famiglia di Emanuele Patanè.
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In quest’ultimo caso con la motivazione che oggetto del procedimento sono fatti avvenuti dal 2004 al 2007, quindi successivi alla morte del giovane ricercatore. Una giustificazione non condivisa da S. Terranova, avvocato dei familiari, che ha dichiarato, “ E’ risaputo che presso la facoltà di Farmacia da anni era invalsa l’abitudine di scaricare i reflui direttamente nel lavandino. Questa contestazione di tipo temporale è semplicemente formale. Auspico che il giudice ammetta le persone che rappresento perché sono quelle che sostanzialmente hanno ricevuto il danno maggiore sia in questo procedimento che riguarda il disastro ambientale sia in quello che sta partendo per omicidio colposo e lesioni personali colpose”.
Il 21 settembre, data della prossima udienza, il giudice deciderà come, e con quali protagonisti, proseguirà il processo. Va,infine, ricordato che, come scrive Motta, “ la procura ha già chiesto e ottenuto che venga disposto l’incidente probatorio per un secondo procedimento. Omicidio colposo il reato ipotizzato dai pm.
L’incidente probatorio, rimandato anch’esso a settembre, dovrà accertare la correlazione tra l’assimilazione di metalli pesanti presenti nell’aria e lo sviluppo di certe tipologie tumorali riscontrate tra le persone che frequentavano e lavoravano presso la facoltà di Farmacia”.