“Hanno ammazzato compare Turiddu”, la battuta conclusiva della Cavalleria Rusticana, non più gridata ma ripetuta sottovoce con uno stentato balbettio da un personaggio apparentemente minore, dà la cifra della originalità di questa rappresentazione della ‘Cavalleria rusticana’ di G. Verga, spettacolo che ha inaugurato la nuova stagione del Teatro Stabile di Catania, per la regia di Gianpiero Borgia.
Hanno ammazzato la cavalleria rusticana! – ripeteva una signora seduta in sala – che, naturalmente, non prendeva parte agli applausi finali rivolti agli attori, delusa forse per una versione non canonicamente folkloristica della novella verghiana, peraltro filtrata, nell’immaginario collettivo, attraverso la rilettura melodrammatica che ne ha fatto Mascagni.
Ma ogni rilettura di un testo classico, così come ogni tentativo di attualizzazione, in verità comportano il rischio di un travisamento totale del contenuto originale di qualsiasi prodotto artistico e, soprattutto se non si è preavvisati, si resta delusi nelle aspettative o addirittura sconvolti, come appunto la signora in questione.
In realtà, il regista traspone la storia verghiana nei nostri giorni, ambientandola nel quartiere di Librino (ma potrebbe essere un qualsiasi quartiere degradato di una qualsiasi città del mondo globalizzato) e intervallando continuamente i dialoghi dei personaggi con movimenti meccanici e ritmati come veri e propri balli collettivi, a simboleggiare la ritualità alienata della città contemporanea.
Non a caso l’involontario disc jokey di questa piazza di quartiere che a tratti diventa una estemporanea discoteca è una sorta di ‘scemo del villaggio’ che porta in giro il suo sgangherato carrozzino da robivecchi.
Quel che ne risulta non è appena l’azzeramento della tradizionale ambientazione siciliana ottocentesca ma una universalizzazione della rappresentazione del delitto, anche attraverso alcune scelte scenografiche come il raffigurare in un anonimo bianco e nero lo sfondo dei palazzi (impercettibile, quasi assente la città), e il vestire di rosso acceso i personaggi, a significare il passionale coinvolgimento di tutti nel percorso narrativo che si concluderà con il delitto. Il risultato finale è alquanto efficace e probabilmente non dispiacerebbe allo stesso Verga.
Viene da fare una riflessione. Così come nella Sicilia rappresentata da Verga appariva l’ineluttabilità del finale tragico dovuto ai dettami del delitto d’onore e della gelosia mediterranea, questa messa in scena, al pari di una fiction che si dipana su un sottofondo di musica pop, fa sorgere un interrogativo ancora più grande, come se i delitti che da sempre accadono nella storia dell’uomo, posseggano oggi una caratterizzazione ulteriore di estraniazione e quindi, in ultimo, di irresponsabilità individuale.
Turiddu, ad esempio, non rimprovera a Santuzza la sua gelosia quanto il fatto di non sentirsi libero “di fare quello che vuole” e Santuzza, solo dopo che ha innescato il meccanismo del delitto, rivelando a compare Alfio l’infedeltà della moglie, si rende conto di essere “una scellerata”.
Anche la partecipazione alle celebrazioni pasquali resta puramente formale ed estranea totalmente ai personaggi che, vittime essi stessi del groviglio delle loro relazioni, sembra che non attendano nessuna redenzione.
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