Le motivazioni che spingono i pubblici ministeri ad evitare o ad abbandonare le procure siciliane sono molte e di vario genere.
Il ruolo dei pubblici ministeri nel Sud è un ruolo difficile a causa della complessità dei problemi presenti nel territorio, il più grave dei quali è certamente la presenza pervasiva della criminalità organizzata. E’ un ruolo, quindi, che comporta rischi reali di incolumità.
Anche il carico di lavoro è particolarmente pesante. Non solo perchè si deve operare in un contesto dove l’illegalità è molto diffusa, ma anche perchè gli stessi vuoti determinano l’appesantimento del carico sulle spalle di chi è rimasto. A Palermo, ad esempio, i magistrati antimafia, che già seguono indagini molto impegnative e delicate, devono, per sopperire alla carenza d’organico, partecipare anche alle udienze ordinarie (Dora Quaranta su Antimafia 2000, novembre 2009).
Anche problemi di natura logistica possono scoraggiare la scelta di queste sedi. Andare a lavorare in alcune di esse, soprattutto nel caso di sedi periferiche, può comportare conseguenze non indifferenti sulla vivibilità. Basti pensare alla distanza dalle altre zone del paese, resa più pesante dalla difficoltà dei collegamenti.
Altro elemento negativo è la carenza di mezzi tecnici che in queste aree è particolarmente grave. Manca il personale e mancano i soldi per la carta, per le fotocopie e per i computer. Per fare qualche esempio spicciolo: a Trapani mancano anche i dirigenti delle cancellerie e dei servizi giudiziari (Rino Giacalone su Antimafia 2000, dicembre 2009); a Palermo si prospetta un’ulteriore riduzione del numero degli addetti, già insufficiente, ed è previsto il taglio di due tecnici informatici. (Quaranta su Antimafia 2000)
Chi va via può essere mosso anche da “legittime aspirazioni ad assumere incarichi semidirettivi o direttivi” o dall’altrettanto legittimo desiderio di tornare nelle regioni di origine. Il vero problema, come denuncia il procuratore Messineo, è la mancanza di ricambio.
Il governo ha cercato di invogliare i magistrati a recarsi in queste sedi disagiate introducendo, con un decreto legge del dicembre 2008, incentivi economici e di carriera per coloro che le scelgono volontariamente. I fatti hanno dimostrato che questo provvedimento non è sufficiente, probabilmente perchè trascura l’importanza di altri fattori.
Tra le motivazioni che scoraggiano la scelta di trasferirsi al Sud per fare il pubblico ministero, ve ne sono alcune che hanno natura diversa da quelle logistiche o di carriera. Si tratta di motivazioni collegabili ad aspetti interni alla situazione attuale della giustizia e alle decisoni che il governo annuncia (a volta minaccia) di voler prendere.
Innanzi tutto non è ancora chiaro cosa il governo intenda fare rispetto alla progettata separazione delle carriere e ad una eventuale riforma della figura del pm e degli strumenti di indagine. Anche in questo caso la funzione più vulnerabile è quella del pubblico ministero. L’incertezza degli scenari futuri non aiuta certo ad intraprendere un percorso di cui non solo non si conoscono i possibili sviluppi ma su cui si possono fare previsioni piuttosto fosche.
Altro elemento che scoraggia è l’impossibilità di passare dal ruolo di pm a quello di giudice prima che siano trascorsi 5 anni, unita alla difficoltà di trasferirsi all’interno della stessa regione o in una limitrofa. Molti magistrati non sono propensi a diventare pm perché in caso di ripensamento non possono tornare sui propri passi se non dopo cinque anni trascorsi in una regione diversa da quella di provenienza professionale. Questi ultimi elementi non riguardano, evidentemente solo il Sud, ma diventano oggettivamente un aggravante, perchè si aggiungono agli altri fattori di cui dicevamo.
In passato le sedi meno ambite venivano occupate dai magistrati più giovani, proprio all’inizio della loro carriera. Un provvedimento (art. 2, IV comma, della L. 30 luglio 2007 n.111) preso dall’allora ministro Mastella e lasciato in vigore dall’attuale governo, ha stabilito che i neo magistrati non possano svolgere funzioni requirenti, non possono cioè andare nelle procure a fare i pubblici ministeri. Non possono nemmeno svolgere il ruolo di giudice monocratico, che opera cioè da solo. Il senso del provvedimento sembrava rispondere ad una logica condivisibile: evitare che magistrati di prima nomina, e quindi inesperienti, occupassero posizioni di molta responsabilità senza prima essersi “fatte le ossa”.
Nella attuale situazione, tuttavia, il provvedimento rischia di peggiorare la situazione dei vuoti, che riguardano soprattutto le procure. Tanto è vero che ai vincitori dell’ultimo concorso, quelli che stanno facendo il tirocinio e che tra un anno andranno ad occupare le sedi scelte, è stata concessa una deroga. Potranno, quindi, svolgere il ruolo di pubblici ministeri o di giudici monocratici.
Molti si sono chiesti se il divieto per i neo magistrati di svolgere il ruolo di pubblici ministeri sia stato dettato anche da una “prudenza” calcolata. In passato, soprattutto negli anni settanta, i così detti “pretori di assalto” hanno dato filo da torcere alle amministrazioni locali, alle industrie inquinanti, alla corruzione. Dimostrando che, al di là di qualche intemperanza o ingenuità, erano ben decisi a perseguire il crimine senza compromessi.
I giudici più esperti si muovono certo con maggiore sicurezza anche nei casi complessi, ma l’esperienza, purtroppo, può anche avere, in alcuni casi, l’effetto di limare la combattività, ammorbidire l’intraprendenza e abituare al compromesso.
Ulteriori aspetti della questione saranno affrontati in un prossimo articolo.
L’analisi qui condotta segue, d’altra parte, quella iniziata nell’articolo Procuratore cercasi (1). Le carenze di organico in Sicilia
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