Divari è una delle parole chiave del Rapporto sulla scuola in Italia 2010 presentato recentemente dalla Fondazione Giovanni Agnelli, ma se lo si legge con attenzione ci si accorge che si tratta più che altro di un eufemismo. In effetti bisognerebbe parlare di vere e proprie diseguaglianze e disparità, tanto profonde da sembrare insanabili.
Appartenere ad un ceto sociale medio-alto, frequentare i licei, vivere in alcune regioni del nord, più che i meriti e le capacità individuali, sembrano essere, ancora e sempre più, i veri motori per il successo scolastico prima, e per un ottimanle inserimento nel mondo del lavoro poi.
Utilizzando i dati forniti dalle indagini Ocse, analizzando i dati del ministero dell’Istruzione e i bilanci di singole scuole, svolgendo ricerche originali sull’uso delle nuove tecnologie o sulle caratteristiche dei docenti neoassunti nel 2009, emerge un’immagine della scuola italiana poco consolante.
Secondo l’indagine PISA (Programme for International Student Assessment) dell’Ocse, che si svolge ogni tre anni ed è mirata sui “livelli di competenza” dei quindicenni in lingua, matematica e scienze, chi studia nelle scuole del Sud ottiene, in media, 68 punti Ocse-Pisa meno di chi frequenta le aule del Settentrione: l’equivalente di un anno e mezzo d’istruzione.
E il 30% degli allievi meridionali non raggiunge affatto la “soglia minima di competenza” che, secondo gli standard europei, è il primo gradino per non diventare emarginati ed esclusi. Per il solo fatto poi di andare al liceo a 15 anni si ottengono 61 punti Pisa, ovvero il 15% in più di competenze rispetto al professionale.
Resta pesantemente disomogenea la percentuale degli espulsi dal sistema educativo (drop-outs): al Sud, il 20% dei giovani da 20 a 24 anni ha solo la licenza media.
Né si tratta di disparità di risorse economiche; il dato sorprendente è che si spende molto per l’istruzione ma si ottengono risultati mediocri. La spesa pro-capite, anche nelle regioni del Sud, non si discosta di molto dalla media nazionale. D’altra parte, il processo di razionalizzazione della spesa, previsto dalla sedicente riforma Gelmini, quasi esclusivamente attraverso una riduzione degli organici (che nel Sud sarà più accentuata per via della forte contrazione della popolazione studentesca), sta già avvicinando la spesa per la scuola a quella prevista dal federalismo fiscale.
La riforma federalista dell’istruzione, decisa dalla modifica del Titolo V della Costituzione ma non ancora attuata, potrebbe sanare questi divari? La sensazione è che rischia invece di peggiorarli.
Essa affiderà allo Stato il compito di sorvegliare – attraverso il sistema di valutazione nazionale – gli effettivi risultati delle Regioni e nel caso sanzionare quelle che non li raggiungono. Alle Regioni toccherà, invece, la scelta delle strategie più opportune a conseguirli.
Secondo i ricercatori della Fondazione gli obiettivi prioritari sono due: “migliorare i livelli di apprendimento degli studenti in tutto il Paese, in particolare, di coloro che oggi si situano sotto la soglia minima delle competenze; abbassare i tassi di ripetenza e contrastare il fenomeno dell’abbandono scolastico”.
La prima condizione per raggiungerli dovrebbe essere quella di reinvestire i risparmi che si stanno realizzando nella scuola stessa: ma questo Governo, al di là della propaganda di facciata, persegue la volontà politica di farsi carico delle situazioni di svantaggio e fornire tutte le risorse aggiuntive necessarie per contenere questa deriva?
I recenti provvedimenti della Trimurti Tremonti-Gelmini-Brunetta sembrerebbero andare in tutt’altra direzione e fanno pensare più ad una ristrutturazione aziendale che ad una seria e organica riforma della scuola.
Stanno accelerando la fuoruscita dagli organici della generazione di insegnanti che, tra gli anni Settanta e Ottanta, è stata protagonista dell’unica vera riforma scolastica, quella della sperimentazione e dell’innovazione didattica vissuta sul campo.
Le nuove generazioni di insegnanti sembrano culturalmente e didatticamente più arretrati, senza considerare il fatto che stanno arrivando in cattedra ormai demotivati e sfiancati da anni di precariato e di continui cambiamenti di sede.
Le SSIS, varate con l’obiettivo di affrontare seriamente il problema della formazione iniziale degli insegnanti, sono state affondate sia per i conflitti amministrativi che innescavano all’interno della categoria ma soprattutto per responsabilità delle Università, che se ne sono impadronite senza avere al loro interno competenze specifiche per affrontare in modo non astrattamente accademico i tanti problemi concreti della didattica.
Ma bisogna avere il coraggio di riconoscere anche la responsabilità di ampia parte del corpo insegnante che, in molti casi, ha smesso di toccare un libro, che non fosse un manuale, il giorno dopo essersi laureato e che è andato avanti anch’esso a ripetere monotamente la stessa lezione e gli stessi obsoleti modelli didattici fino al giorno del pensionamento.
Si è fatta sempre più irriducibile la divaricazione, soprattutto al Sud e riguardo agli istituti tecnici e professionali, fra scuola e mercato del lavoro, che, nella migliore delle ipotesi, ha prodotto diplomati sempre più difficilmente collocabili in modo coerente con le professionalità acquisite, e, nella peggiore, semplicemente dei disoccupati.
L’insieme di questi, e tanti altri fattori, sembra quindi caratterizzare il progressivo esaurirsi del ruolo di ‘ascensore sociale’ della scuola che, paradossalmente, è coinciso con il definitivo affermarsi della scolarizzazione di massa. Il suo limite maggiore consiste nel fatto che, se ha assicurato a tutti, almeno teoricamente, parità di condizioni in entrata non si è affatto curata di controllare che la stessa parità si ritrovasse nelle condizioni di uscita, in termini di conoscenze e competenze.
Don Milani? Chi era costui? E’ stata mai spedita la ‘Lettera ad una professoressa’?
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