Il volume “Musei digitali e generazione Z. Nuove sfide per nuovi pubblici“, una guida critica ai siti web di alcuni musei italiani e internazionali, curata da Elisa Bonaccini, è oggetto di una nuova intervista realizzata dall’archeologa e saggista Francesca Valbruzzi
Bonacini, docente di “Valorizzazione digitale in beni museali”, all’Università degli Studi di Bari, studiosa e pioniera nel campo della “disseminazione” digitale dei valori storici e sociali del patrimonio culturale, ha ideato e realizzato decine di progetti di comunicazione museale multimediale anche in Sicilia, dove peraltro è nata e ha iniziato i suoi studi.
In questo caso il volume raccoglie la riflessione collettiva sui risultati di una ricerca svolta all’interno del progetto “Museums: Back to the future“, parte dell’azione europea “Cultura Heritage Active Innovation for Sustainable Society – CHANGES”, di cui Giuliano Volpe è responsabile, la stessa Bonacini titolare, e Andrea Leonardi referente scientifico.
Una ricerca innovativa, fondata su attività laboratoriali, teorico-pratiche e di brainstorming partecipato che cerca di cogliere l’evoluzione in atto nel mondo dei musei, dove sono in atto processi di digitalizzazione, con un focus particolare sulle relazioni fra musei digitali e nuovi pubblici.
Hanno preso parte all’esperienza laboratoriale gli studenti in Scienze dei beni culturali, che frequentano a Bari l’insegnamento di “Museologia”. Appartengono alla cosiddetta Generazione Z o Zoomers, cioè ragazzi nati tra la metà degli anni ‘90 e il 2010, abituati alla realtà virtuale immersiva, ciò che oggi si definisce ‘metaverso’. E che prediligono contenuti visuali e audio.
Le “esperienze di navigazione” nei musei digitali da parte degli studenti coinvolti hanno rivelato che la stragrande maggioranza dei website museali, pur implementando l’offerta di servizi online e contenuti con cui gli utenti possono interagire, continua a presentare un modello di tipo informativo e unidirezionale, piuttosto che dialogico e collaborativo.
Questo potrebbe spiegare il motivo per cui i musei, nonostante le innovazioni digitali profuse in questi decenni, siano ancora considerati poco attrattivi per le giovani generazioni.
Come scrive, infatti, l’Autrice: “Le nuove generazioni di visitatori, e nello specifico la Generazione Z, vogliono appropriarsi, creare e ricreare, anche digitalmente, una propria cultura condivisa, perché abituati a un mondo fluido, condiviso e interconnesso, in cui i social media non sono solo uno strumento, ma il loro modo naturale di connettersi al mondo, di esprimersi, manifestarsi e dibattere”.
Francesca Valbruzzi
Un importante passo avanti, per una riflessione più ampia sul ruolo dei musei, è stato fatto nell’agosto del 2022 a Praga, dove ICOM (International Council of Museums), ha proposto un approccio interdisciplinare, con l’impiego simultaneo di diverse professionalità e la creazione di nuove figure in grado di cogliere le strette relazioni invisibili di cui la cultura inclusiva necessita.
Quanto è importante, per evitare facili banalizzazioni e semplificazioni, che venga riconosciuto il ruolo specialistico delle diverse professionalità museali da parte delle Istituzioni di un Paese come il nostro, che potremmo definire un vero e proprio “Museo vivente”?
Elisa Bonacini

La discussione sulle professionalità dei musei è ampia e di lunga data. La stessa ICOM Italia aveva promulgato la Carta nazionale delle professioni museali nel 2006, nella quale già si evidenziava la necessità di un organigramma molto più complesso di quello ancora presente nei nostri musei, in cui se c’è un responsabile (o direttore) è spesso contemporaneamente responsabile amministrativo e forse pure della comunicazione.
Già nel 2006, quando ancora non era diventato pervasivo l’uso dei social, era comunque necessaria almeno la figura del responsabile del sito web, ma generalmente le figure indicate – curatore, catalogatore, registar, restauratore, responsabile dell’ufficio stampa, solo per citarne alcune – erano ancora pienamente “analogiche”.
Nel 2010 il Ministero pubblicava i Profili professionali, divisi in realtà per funzioni/servizi e aree disciplinari, in cui vagamente si parlava di un assistente informatico. Nel 2017, la revisione delle figure professionali per i Musei, realizzata sempre ad opera di ICOM (Professionalità e funzioni essenziali del museo alla luce della riforma dei musei statali), ha dato un “taglio” molto più orientato al pubblico e ai servizi proposti, non soltanto relativi alle attività di educazione al patrimonio culturale (oggi molto più strutturati) ma anche a quelle della gestione delle risorse informatiche relative alle collezioni e alle molteplici forme di comunicazione, dal sito web alle collezioni online agli allestimenti museali anche multimediali, proprio tenendo in considerazione l’enorme processo di trasformazione digitale che coinvolge la società e, anche, le istituzioni culturali.
Nel 2021 il Ministero pubblica la Guida alle professioni dei beni culturali individuate dall’art. 9 bis del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, che inquadra chi e cosa fa un archeologo, uno storico dell’arte, un antropologo, un restauratore, un esperto di diagnostica… Si limita a questo, oggi, il mondo della cultura e dell’arte? Assolutamente no.
Oggi le Humanities non possono più essere pensate in modo analogico. Oggi le figure professionali richieste devono essere dei Digital Humanists, delle figure ibride, capaci di coniugare la formazione umanistica con l’evoluzione delle tecnologie, sia dal punto di vista della tutela, della catalogazione, che della comunicazione e valorizzazione che oggi sono multicanale, onsite e online. Non bastano figure come il Social media manager per dire che un museo è digitale!
Sono necessarie figure come il Digital curator, il Digital collection curator, il Digital Media curator, il Mediatore digitale, il responsabile della accessibilità anche digitale, solo per dirne qualcuna. Sulla molteplicità delle professioni, oggi necessarie in ambito museale, ancora ICOM Italia è tornata all’indomani del secondo lockdown alla fine del 2020 (grazie anche a quanto elaborato nell’ambito del progetto Mu.Sa.), con un documento a cura dell’amica Anna Maria Marras che invito ad approfondire.
Il museo è diventato un vero e proprio ecosistema anche digitale e questo processo necessita di anche di un aggiornamento radicale delle professioni.
Francesca Valbruzzi
Vorrei partire da una riflessione offerta dal volume: “Il museo assume sempre più una postura sociale, educativa ed inclusiva, cerca di essere più appetibile e stimolante nell’attrattiva, in particolare, per le nuove generazioni, anche attraverso una connotazione inedita, in particolare se integrata con la cultura digitale e con la partecipazione virtuale e narrativa. In questo, la pratica dello storytelling digitale partecipativo risulta lo strumento adatto per creare un impatto sempre più emotivo, interattivo e partecipativo, attraverso le innumerevoli storie e gli innumerevoli segni di cui sono portatori gli oggetti, i reperti, i documenti del passato e del presente, in grado di attivare un museo partecipativo, di narrazione, di comunità e, infine, di connessione, dove le tecnologie e le storie digitali hanno un ruolo cruciale nel favorire e creare comunità.”
Come possono i frammenti sparsi della memoria storica custoditi nei musei archeologici ricomporsi in storie digitali, per e tramite le nuove generazioni?
Elisa Bonacini
Chi mi conosce sa che da oltre un decennio promuovo processi partecipativi, dal basso, nell’ottica di trovare soluzioni di coinvolgimento con le nuove generazioni. I reperti archeologici – come tutte le manifestazioni culturali umane – sono ‘portatori’ di infinite storie, ma spesso restano muti, dentro la vetrina di un museo, accompagnati da didascalie spesso troppo tecnicistiche.
Amo riportare spesso una frase, che viene dal fondatore della piattaforma izi.TRAVEL, Alex Tourski, su cui porto avanti processi partecipativi di cocreazione di storytelling culturale sin dal 2016: “Cosa è un’opera d’arte senza una storia? È solo un oggetto”. Ebbene le opere nei musei rischiano di essere oggetti non parlanti dentro un contenitore che non si preoccupa di attivare tutte le connessioni possibili per farli parlare. “Connessione” è la parola chiave di tutto, su cui ho anche lanciato nel 2020 un nuovo modello di museo, il “museo di connessione”, l’evoluzione “empatica” del museo, in cui la connessione è al contempo fisica, emotiva, cognitiva e, anche, digitale.
Quindi sfruttare le storie che giacciono silenti nelle opere esposte in un museo è la chiave per connettere o riconnettere quegli oggetti alle persone. Il museo è un luogo che conserva, con gli oggetti, le memorie di una comunità. Patrimonio materiale e immateriale che rischia non solo di rimanere muto, ma di non essere più preservato. Cosa ci racconta un vaso antico? Ci racconta in primis come è stato fatto, come e chi lo ha usato, come è stato trovato, chi lo ha trovato, come è stato restaurato; ma anche se ha un suo corrispettivo rispetto alla contemporaneità. Sciogliere il termine “guttus” in “biberon” e magari affiancargli l’icona del neonato, significa sfruttare con molta semplicità l’accostamento al quotidiano per avvicinare all’oggetto antico. Grazie allora all’intuizione di Sandro Garrubbo, divenuto poi Social media manager del museo, nel lontanissimo 2013-2014, il Museo archeologico regionale “Antonino Salinas” di Palermo avviava delle strategie di comunicazione orientate proprio a connettere i pubblici (e in quel caso quelli online!) ai reperti archeologici: fu una innovazione che divenne un caso studio e aprì le porte al cambio di passo della comunicazione archeologica. Oggi quelle strategie ci sembrano scontate, invece sono ancora attualissime.
Se, poi, si lascia contribuire in modo partecipativo alle narrazioni del museo, anche e soprattutto le nuove generazioni, si attiva un processo virtuoso in cui le persone, le comunità, diventano esse stesse attivatrici di senso patrimoniale e di appartenenza, realizzando in pieno quanto ci dice la Convenzione di Faro (trattato internazionale, sottoscritto dal Consiglio d’Europa nel 2005, sulla partecipazione delle comunità alla fruizione del patrimonio culturale-ndr).
Francesca Valbruzi
Come scrive l’Autrice: “La rivoluzione dei social media ha decisamente favorito un approccio diverso tra musei e utenti, facilitando la trasformazione da un museo di collezione, tassonomico e gerarchico, a un museo partecipativo, aperto al contributo, alla collaborazione e alla partecipazione fino alla co-creazione insieme ai propri followers.”
Ma la stessa Autrice evidenzia come, in generale, i musei siano ancora lontani dall’applicare pienamente una corretta web strategy per riuscire a coinvolgere le comunità. Cosa manca oggi alle strategie di comunicazione museale digitale per renderle “di comunità”?
Elisa Bonacini
I musei devono sfruttare al meglio le grandi potenzialità che il digitale mette a disposizione. Al di là degli sporadici contest, in cui i follower possono essere coinvolti in qualche attività sui social, sarebbe opportuno pensare a strategie a lungo termine, in cui i follower, gli amici del museo, gli studenti etc., insomma tutte quelle heritage communities di cui parla la Convenzione di Faro, possano diventare coautori e cogestori del patrimonio culturale comune.
Possono essere coinvolti nella cocreazione di contenuti culturali, nella conarrazione delle proprie collezioni, nella condivisione delle proprie collezioni, oggi anche nella cocuratela (come già fanno il British Museum e il Musee d’Orsay, che chiedono di collaborare nell’indicazione di informazioni rispetto alle informazioni relative a un’opera) e persino nella condivisione di gallerie virtuali delle proprie collezioni.
Create your Gallery of Honour è un recentissimo esempio di quest’ultima pratica (lanciata a novembre 2024), sviluppata al Rijskmuseum di Amsterdam (apripista con il RijskStudio già nel 2016 di soluzioni partecipative nella creazione di gallerie dalle collezioni). Le soluzioni sono molteplici.. vanno solo sfruttate!