Diamo oggi la parola ad Antonio Fisichella, autore del saggio “Una città in pugno”, per ricordare gli 80 anni del quotidiano locale, festeggiati di recente tra il plauso generale. Un invito a non fare cadere il silenzio su quella “commistione tra politica, istituzioni, informazione e criminalità mafiosa” che ha posto le premesse per l’attuale sfacelo della nostra città. E rispetto alla quale non si vede ancora un cambio di passo.
In un’isola bella e antica e in una città, altrettanto bella e antica, vive un venerato maestro la cui famiglia da tempo immemorabile pubblica un giornale. Non un foglio qualsiasi ma un baluardo democratico, le cui orgogliose bandiere garriscono al vento del pluralismo e della libertà.
E’ l’idilliaco racconto, sospeso tra fiaba e grottesco, contenuto nei due inserti speciali con i quali La Sicilia ha celebrato il suo 80° anniversario. Pagine su pagine in cui il nascondimento della realtà, l’esaltazione del giornale e la glorificazione dello storico direttore-editore hanno passato il segno, tanto sono sembrate esorbitanti, esagerate e distanti dal vero.
A partire dal colpo di mano tentato dal direttore Antonello Piraneo che ha titolato il messaggio di Mattarella con un entusiastico Libera e autorevole. Lasciando intendere che il Presidente della Repubblica avesse attribuito quelle due meravigliose qualità al giornale che egli ormai dirige dal 2018. Ma la prima carica dello Stato non ha detto né scritto che La Sicilia è una testata libera e autorevole.
Mattarella ha semplicemente sottolineato “la tradizione e il radicamento del quotidiano” e le sue “iniziative multimediali”. “Un impegno – ha chiosato il Presidente – che rafforza la presenza nel Mezzogiorno di un’informazione libera e autorevole“. Nel linguaggio compassato del Quirinale poco più di un formale auspicio rivolto all’informazione del Mezzogiorno.
Piraneo non è nuovo a questi coup de theatre. Indimenticabile l’editoriale del 27 gennaio 2024 con il quale, all’indomani dell’assoluzione di Ciancio dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, appallottolò quel processo, riducendolo ad un caso di “strabismo giudiziario”. Come se, quel processo, nulla avesse detto sulla reale natura e sulla funzione svolte dal suo predecessore nel ponte di comando della città.
Nello stesso editoriale il direttore ammise, con effetti involontariamente comici, che “la vicenda di Mario Ciancio Sanfilippo avrebbe meritato un dibattito, se del caso severo, ma non un processo”. Ma dove avrebbe dovuto svolgersi un tal dibattito, se del caso severo? Nelle sedici righe che la sua innovativa direzione ha sistematicamente dedicato alla moltitudine di udienze di un processo protrattosi per ben sei anni?
Un giornalista di tanto conio fa fatica a vedere come qualsiasi dibattito su Ciancio sia stato storicamente impossibile? La debolezza della politica e la rinuncia dei chierici ad esercitare un qualsiasi ruolo nella società ha fatto sì che la magistratura svolgesse l’ennesimo ruolo di supplenza civile e democratica.
Il direttore e la sua redazione non se ne sono accorti, ma quel processo è stato il dibattito. L’unico possibile in una città come la nostra, soffocata da un cinquatennale monopolio informativo che ha ferito a morte la vita civile e culturale e che ha costituito elemento fondante delle derive di ieri e di oggi.
Il primo grado del processo Ciancio si è concluso – lo ripetiamo – con l’assoluzione del direttore editore. E le sentenze si rispettano. Ma le motivazioni si leggono e si discutono. Ebbene, gli stessi giudici che lo hanno assolto non hanno potuto fare a meno di sottolineare – a proposito dell’autonomia e dell’autorevolezza del quotidiano cittadino – come l’ex presidente nazionale della potentissima Fieg, abbia “dimostrato una elevata attitudine ad adottare soluzioni diplomatiche, sia con i poteri forti, che con le istituzioni e con la stessa criminalità organizzata.”
Il direttore- editore “ha così dato vita – proseguono i giudici – ad un giornalismo esercitato con una linea morbida, omettendo notizie con l’obiettivo specifico di tutelare esclusivamente i propri personali interessi, a discapito della privacy, dell’etica o delle esigenze di giustizia”.
Quanto ai rapporti con la mafia è emersa, scrivono i magistrati, “una vicinanza o contiguità con Cosa Nostra“. Infine – concludeva la sentenza- “l’istruttoria ha permesso di dimostrare l’indebita ingerenza nei confronti della pubblica amministrazione“.
Infatti, l’ex vicepresidente dell’Ansa, in virtù “del suo potere economico, finanziario e sull’informazione, è stato spesso in grado, per la sua spregiudicata capacità, di condizionare le scelte politico-amministrative per le quali aveva interesse“.
A conclusioni del tutto simili è giunta la Corte d’appello che nel marzo 2020 ha annullato la confisca dei beni di Mario Ciancio. Ma anche il più mite dei decreti non ha potuto esimersi dal rilevare come Mario Ciancio “fosse un imprenditore protetto da Cosa nostra catanese”. “Un rapporto – affermano i magistrati – che si è cordialmente consolidato, fino a sviluppare una relazione improntata a “cordialità, vicinanza e contiguità”. E ciò ha finito – conclude la corte d’Appello – “con l’alimentare e consolidare l’humus su cui attecchisce, si radica e sviluppa l’associazione mafiosa e la sub cultura mafiosa”.
Come dire: i beni e i soldi sono salvi, ma non l’onore e la rispettabilità, gli asset fondamentali su cui dovrebbe fondarsi l’azione di un giornale libero e autonomo.
Pietre dure e pesanti le parole e i giudizi contenuti in quella sentenza e in quel decreto. Rappresentano una frattura nella vita della città cui è stata ricostruita una parte di verità. Ma classi dirigenti e giornale continuano ad ignorarle.
Esponenti di spicco delle istituzioni repubblicane, il vice presidente della Camera dei deputati, Giorgio Mulè, e il presidente della Regione, Renato Schifani, all’80°, hanno sentito l’irresistibile bisogno di “esprimere sincera gratitudine a Mario Ciancio Sanfilippo e alla sua famiglia per tutto quello che hanno saputo dare alla nostra terra!”. Altri si sono limitati a giocherellare con lo stereotipo de La Sicilia luogo privilegiato di libertà civile e passione giornalistica.
Eppure, nelle pagine dei Tribunali della Repubblica. viene rappresentato il più duro e implacabile dei domini, sorto da una mostruosa commistione tra politica, istituzioni, informazione e criminalità mafiosa. Non una parentesi transitoria, ormai definitivamente alle nostre spalle, ma un processo duraturo che ha prodotto esiti permanenti sul piano politico e, ancor di più, su quello sociale e culturale. Così come le cronache di tutti i giorni, anche le più recenti, si incaricano di dimostrare.
In quelle pagine, in quella Catania di ieri c’è il racconto del suo presente, di buona parte della Catania di oggi. Senza sciogliere quei nodi, senza una autentica autocritica, sarà arduo per la nostra città scrivere un futuro diverso. Ma classi dirigenti e quotidiano locale sono ben lontani dal tentare e persino dall’abbozzare anche il minimo cambio di passo.
Di seguito i link agli articoli in cui Antonio Fisichella ha raccontato, su Argo, alcune significative udienze del processo all’editore, accusato di concorso esterno all’associazione mafiosa. Un tentativo di rompere il muro di silenzio che ha avvolto un dibattimento che aveva molto da dirci.
Processo Ciancio: radiografia del potere. Il perchè di tanto silenzio – Processo Ciancio, i silenzi del senatore Sudano – Processo Ciancio. Ecco i professionisti della speculazione – Processo Ciancio, tra colpi di fortuna e miracoli (1) – Processo Ciancio, tra colpi di fortuna e miracoli (2) – Processo Ciancio, i pentiti e il giornale amico della mafia – Anche se vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti. Il processo Ciancio e la città
Ciascuno è libero di raccontare la propria storia sul proprio giornale come meglio crede, celebrandosi e omettendo le pagine oscure.
Poi accade che da un lato ci sono gli interessati cantori che applaudono sino a spellarsi le mani e gli altri che rimangono attoniti, perchè hanno capito da dove proviene il degrado sociale, culturale, politico, istituzionale ed economico della città di Catania.
Non certo da un uomo, per quanto le sentenze lo descrivano quanto meno “spregiudicato”, nell’ intrattenere pericolose relazioni con la mafia che, secondo quanto pare dicano questi provvedimenti giudiziari, avrebbe protetto le attività e gli interessi economici di Mario Ciancio.
Ma da un sistema, il famigerato “sistema Catania”, ossia quel coacervo di potere, ipocrisie, collusioni contiguità che resero possibile l’inaugurazione di una concessionaria di automobili da parte di Benedetto Santapaola alla presenza delle massime autorità cittadine.
Il giornale “La Sicilia” si può oggi dire che sia stato l’house organ di questo “sistema”. Le sentenze hanno detto che ciò non costiuisce reato, ma il giudizio morale, civile e politico non può essere assolutorio, ma di ferma condanna.
E dovremmo guardare con sommo sospetto tutti quelli che oggi applaudono oppure semplicemente fanno finta di dimenticare le pagine oscure scritte da questo giornale, non sempre stampato con l’inchiostro nitido della verità e della giustizia.
UN ARTICOLO PERFETTO.