La testimonianza di Nino Bellia, che – in occasione del giorno della memoria – racconta un incontro importante, per lui e per gli allievi della sua scuola.
Fin dal 2005, ogni anno succedeva così: al rientro dalle vacanze di Natale, riordinavo le foto e gli altri documenti, e la settimana prima del 27 gennaio cominciavo ad andare a scuola con un piccolo binocolo da teatro, in madreperla e metallo dorato. A un certo momento lo estraevo dalla tasca del giubbotto e a sorpresa lo poggiavo sulla cattedra. “Ma che cos’è?” chiedevano subito i ragazzi.
In effetti si trattava di un oggetto piuttosto inconsueto, roba da nobili, da raffinate signore sui palchi di un teatro dell’Opera. Allora raccontavo di quando avevo appena diciotto anni e mi trovavo a Petrulli, una contrada tra Zafferana e Milo, sulle strade dell’Etna. L’amica che ero andato a trovare, saluta una bella signora bionda, coi capelli raccolti da una bandana rossa. “Si chiama Susanna, è francese. Abita proprio qui dietro, nel bosco. Dicono che sia stata ad Auschwitz…”. Passarono molti anni, ed io non ebbi mai più occasione di rivedere quella signora. Di tanto in tanto, però, il suo ricordo mi attraversava la mente, soprattutto con l’approssimarsi della “Giornata della Memoria”.
Nel 2004, per un incontro con gli alunni della Media “Casella” di Pedara, io e i miei Colleghi del G.R.E.P. (Gruppo Ragazzi Edificatori di Pace) avevamo invitato l’avvocato catanese Cappellani, ex deportato nel lager di Dachau. L’attenzione e l’interesse dei ragazzi in quell’occasione avevano superato ogni aspettativa. Incoraggiati da questo primo esito, anche per l’anno successivo ci sarebbe piaciuto continuare con testimonianze dirette.
Ma a chi rivolgersi? Fu allora che decisi di andare in cerca della donna bionda con la bandana rossa, nella speranza che fosse in vita, e ancora in grado di parlare ad una scolaresca. Chiesi notizie alla mia amica e lei mi indirizzò presso il “Bar del bosco”, un locale noto per l’ottima cucina e, soprattutto, per certe specialità ai funghi. “So che si frequentavano spesso, anzi erano come parenti. Prova là.”
Primi giorni subito dopo Natale. Mi reco di mattina a Petrulli, quando il ristorante è ancora chiuso, e trovo il signor Barba. Noto una certa reticenza, forse diffidenza davanti ad uno sconosciuto che chiedeva notizie di Madame Suzanne Kalisz. Avrei potuto essere un curioso…indiscreto, importuno e magari invadente. Inoltre, da tempo giravano allarmanti notizie su rigurgiti di neonazismo e recrudescenze di antisemitismo in tutta Europa. C’era da comprendere quell’atteggiamento un po’ restìo nei miei confronti.
E tuttavia il signor Barba mi mise in contatto con Susanna, la sua secondogenita, che era stata tenuta a battesimo da Madame, e ne aveva ereditato il nome. Cordiale e schietta, Susanna mi avverte che la Madrina, allora ottantatreenne, stava male e che, comunque, non si era mai soffermata troppo sui ricordi del lager, né in privato né, tanto meno, in pubblico. Qualche battuta, qualche parentesi, sprazzi di situazioni e di episodi, interrotti e ripresi saltuariamente, a distanza anche di anni: mai un racconto completo, mai una ricostruzione ordinata della vicenda, dal principio alla fine.
Nonostante tali presupposti, vedendomi effettivamente interessato e, comunque, pronto a ritirarmi in buon ordine in caso di rifiuto, Susanna si impegnò a parlarne con la Signora e, qualche giorno dopo, mi comunicò che sarei stato ricevuto da Lei. Madame Suzanne in quel periodo abitava a Fondachello, in un appartamento vicino al mare, dove il clima era più mite rispetto a Zafferana. Proprio lì aveva fedelmente assistito fino alla fine il marchese Atanasio di Taormina, il nobile siciliano che ad ogni costo l’aveva voluta come compagna della sua vita, sfidando la disapprovazione della famiglia. E grazie a questo amore Suzanne era venuta a vivere tra noi, in Sicilia.
Durante il percorso fino a Fondachello ripassai più volte mentalmente le migliori argomentazioni per convincere l’interlocutrice a me ancora sconosciuta, a venire a Pedara per la “Giornata della Memoria” del 2005. Quando arrivai, mi sentivo emozionatissimo e totalmente disarmato, dimentico di qualsiasi ragionamento. Una ragazza venne ad aprirmi e mi introdusse all’interno di un saloncino in penombra, dove Madame Suzanne Kalisz mi attendeva seduta in poltrona. Ne ricordo bene l’aspetto diafano, l’aria un po’ sofferente ma pacata, i capelli biondi ben curati, e un abito scuro, che la fasciava con eleganza. Portava occhiali da vista, che filtravano appena lo sguardo dei suoi occhi, piccoli e penetranti. Mi scusai per averla importunata, mi presentai come insegnante e Le spiegai il motivo della visita, che, peraltro, le era stato anticipato dalla figlioccia.
“No…” esordì, scuotendo il capo ad occhi chiusi e col braccio teso, come allontanando qualcosa di sgradevole. “Brutti ricordi, troppo tristi… non me la sento.” Accettai con rassegnazione quel diniego. Dopo tutto, ero già stato preparato da Susanna. Madame mi fissò un attimo.
Poi aggiunse, annuendo: “Io le ho viste, sa?” Temevo di fare domande, ma mi sembrò che fosse disposta e che lo desiderasse, anzi. Tentai, quasi sottovoce: “A che cosa si riferisce, Madame?”
“L’abat-jour… l’abat-jour di pelle umana…”
Fu come se quel terribile ricordo dell’abat-jour e del paralume rivestito con la pelle dei deportati si accendesse, rischiarando un tunnel senza porte né finestre, volutamente tenuto al buio. Da Susanna piccola avevo appreso che, a periodi, la Signora scompariva per giorni. Lei che amava la luce, la compagnia e le feste, si serrava in casa e vi restava chiusa, le imposte tappate, la luce spenta. Nessuno ha mai saputo cosa facesse, cosa le accadesse, neanche Susanna e suo fratello Giancarlo, per i quali nutriva tanto affetto e confidenza.
Dopo qualche istante di silenzio, si riscosse, battendo una mano sul bracciolo della poltrona, e con determinazione irreversibile promise: “Verrò… io verrò a parlare con quei ragazzi. E’ un dovere!”
La mia gioia fu pari alla sorpresa. “Ne sono felice, Signora, anche se posso immaginare quanto le costerà… La ringrazio dal profondo del cuore, anche a nome dei miei Colleghi e di tutti gli alunni che avranno la fortuna di incontrarla.”
“Che cosa dovrei dire? da dove devo incominciare?” mi chiese.
“Dall’inizio, Madame: da quando fu arrestata e poi, via via, fino alla liberazione. Ma non si preoccupi, l’aiuterò con qualche domanda e seguiremo insieme un filo.”
Fu così che mi parlò della propaganda in favore di De Gaulle, e della stella verde per i figli di matrimoni misti.
“Come arrivò ad Auschwitz?”. Raccontò del viaggio nei carri bestiame (“…les wagons plombés…”), sotto la minaccia delle armi, tutti così stipati da stare in piedi, gli uni appoggiati agli altri. Ci tenne a farmi sapere della gentilezza che un soldato tedesco mostrò nei suoi riguardi. Poi l’arrivo nel lager, e quella scritta sul cancello, che si sarebbe rivelata beffarda e oltraggiosa per i prigionieri, e che la faceva arrabbiare anche a distanza di tanto tempo.
Le chiesi ingenuamente se avesse conosciuto Anna Frank, e lei mi disse che il Campo era molto grande e che nelle baracche ci si ricordava a stento del proprio nome. Le domandai anche se avesse subìto qualche forma di sterilizzazione. Confermò di non aver avuto figli nella sua vita, probabilmente a causa della deportazione, ma al riguardo ricordava soltanto questo: poco dopo l’ingresso ad Auschwitz, e successivamente alla doccia e al tatuaggio, era stata costretta a passare davanti a un macchinario non meglio identificato, restando esposta a radiazioni bluastre. “Forse è dipeso da quel raggio…”
“E il numero sul braccio?” Si rimboccò la manica destra e mostrò il braccio, privo di segni. “Non lo sopportavo. Me lo feci cancellare dopo la liberazione. Incominciava col sei e finiva col sette…”
Passammo alla vita quotidiana nel Campo: la brusca sveglia al mattino presto, i lavori di costruzione di muri, che, appena completati, venivano abbattuti dalle Guardie; il freddo e la pioggia che continuava ad entrare dal tetto delle baracche; la fame e le contese per accaparrarsi gli scarti di cibo dei Nazisti; la ferocia delle Kapò… Le dissi che erano proprio le situazioni raccontate da Spielberg in “Schindler’s list”, ma la Signora precisò senza incertezze: “Quello che si vede nei films, è niente al confronto…”
Ogni tanto si concedeva una pausa e restavamo assorti, in attesa di un altro passo in quella notte. “Poi fummo trasferiti a Bergen Belsen, dove ci trovarono gli Inglesi. Credo di essere sopravvissuta grazie a un’amica musicista, a cui i Tedeschi avevano ordinato di formare un’orchestrina. Lei mi volle in questa orchestrina, benchè non sapessi né suonare né cantare. Ma fu un modo per allungarmi la vita…”
“Anche in quelle condizioni di atrocità, la musica!”
“Ma non era per la musica… serviva a coprire le urla di quanti entravano nelle camere a gas…”.
Il racconto si fermò all’arrivo delle Truppe Alleate e all’arresto del Comandante del lager di Bergen Belsen e delle Kapò. Non era tantissimo, ma di certo più che sufficiente per una testimonianza indimenticabile. Le chiesi qualcosa sul “dopo” e accennò agli aiuti da parte dei parenti ebrei, alle boutiques di alta moda a Les Champs Elysées e a Casablanca. La ringraziai con profonda commozione e la rassicurai che avremmo seguito quella traccia durante l’incontro del 27 gennaio. Tutto era avvenuto con naturalezza e sentivo di essere stato ammesso nel novero degli amici di madame Suzanne Kalisz. Mi alzai per congedarmi e Lei mi sorprese per la seconda volta: “Mi accompagneresti dal parrucchiere? È qui vicino, ma ci vuole la macchina…”
27 gennaio 2005 Giornata della Memoria presso la Scuola Media “Casella” di Pedara.
Alla ripresa dell’attività scolastica, portai la notizia ai miei Colleghi del G.R.E.P., al Preside di allora e al Collegio dei Docenti. Erano proprio queste attività di Educazione alla Pace e all’Intercultura che ci avevano spinti alla ricerca di opportunità così speciali per gli allievi di Pedara. Informato, dunque, il Consiglio del G.R.E.P., i giorni che ci separavano dal 27 furono vissuti all’insegna di una preparazione minuziosa e febbrile: films, documenti fotografici forniti dalla stessa Madame Kalisz e dalla famiglia Barba, ricerche, componimenti e disegni. L’Aula Magna fu trasformata in una grande sala tappezzata di tutto il materiale prodotto durante le due settimane. Per l’occasione furono invitate alcune emittenti televisive, che, però, si lasciarono sfuggire l’appuntamento.
Nei giorni immediatamente precedenti la temperatura si era abbassata di parecchi gradi e la mattina di giovedì 27 gennaio ci risvegliammo con neve e ghiaccio, cosa inconsueta dalle nostre parti.
L’arrivo dell’illustre Ospite era previsto per le 9.00, ma io temevo seriamente che il freddo e la condizione delle strade semigelate ci avrebbero costretti ad un rinvio problematico, se non addirittura alla rinuncia definitiva. Qualche minuto prima delle 9.00, invece: “Professore, sono arrivate!”… Madame Suzanne Kalisz, a bordo dell’automobile guidata da Susanna giovane, era all’ingresso. La notizia in pochi minuti fece il giro della Scuola. Così, mentre le Classi si preparavano a lasciare le aule per recarsi nel salone debitamente allestito, la Signora veniva accolta in Presidenza.
Indossava una magnifica pelliccia, che richiamava la tinta dei suoi capelli. Sembrava un po’ intirizzita, ma serena e assolutamente determinata. La presenza di Susanna, del resto, la rassicurava per qualsiasi necessità ed evenienza. Quando tutti furono pronti, ci avviammo, Lei sotto braccio col Preside, come per una amena passeggiata fra vecchi amici. Al suo ingresso in Aula Magna, i ragazzi si misero in piedi senza rumore e applaudirono con tanto trasporto da far schizzare su il termometro interno dei presenti. Nessuno avvertiva più il freddo.
Dopo una brevissima presentazione, aprimmo, cantando tutti insieme “La canzone del bambino nel vento”. Poi cominciò la testimonianza di Madame Suzanne Kalisz, sopravvissuta alla tragedia dei lager di Auschwitz e di Bergen Belsen. Il suo italiano misto a francese suscitava più attenzione e interesse che un discorso chiaro e ben pronunciato. Io e Susanna, di tanto in tanto, intervenivamo a tradurre qualche parola o a reinquadrare il contesto. Le domande alla fine non furono molte, non ce ne fu bisogno. Agli occhi del giovanissimo uditorio, la favola nera dell’Olocausto si era tinta di un indelebile rosa antico.
In chiusura, quasi con effetto catartico, intonammo gioiosamente “Alla fiera dell’est”. Madame Suzanne concluse da par suo. Si fece sistemare una sedia davanti al tavolo della conferenza, vi si sedette e aspettò che tutti i ragazzi sfilassero al suo cospetto, con aria solenne e, al tempo stesso affettuosa, da antica e autorevole regina: una stretta di mano, un bacio e un cioccolatino a tutti, uno per uno. Quella mattina, in Aula Magna, gli studenti, tra intere classi e rappresentanti di Prime e Seconde Medie, erano più di centoventi!
Ultimi appuntamenti
Il successivo lunedì la Signora Kalisz si ricoverò in ospedale, dove le fu diagnosticato un tumore in fase terminale. Era già febbraio, quando tornò a casa, a Zafferana. Una sera sentii squillare il telefono. “Vieni a trovarmi? A me fa piacere; se vieni, chiacchieriamo un po’. ”
Così, nell’ultimo scorcio della sua vita, anche quando Madame non riceveva più nessuno, io ebbi l’onore di farle ancora qualche visita. Era stanca, certo, e mi ricordava le grandi attrici dei suoi tempi, come Greta Garbo o Marlene Dietrich. In un paio di occasioni mi accolse in piedi e mi fece visitare la casa ed il giardino, le piante che coltivava, l’ampio salone al piano inferiore. “Vorrei fare una grande festa in questo ambiente. Pensi che basterebbe per tutti i ragazzi della tua scuola?”
La casa era impreziosita da begli oggetti, senza avere l’aria del museo. Fra l’altro, mi mostrò le foto dell’inaugurazione del primo festival di Cannes, a cui aveva presenziato giovanissima, poco dopo la fine della Guerra. Fu in una di queste ultime occasioni che mi fece dono del binocolo bianco e dorato, in madreperla. “Ecco, prendilo. E’ per le tue figlie, un ricordo…”.
La penultima volta che mi recai dalla Signora, ci sedemmo davanti a una grande finestra e mi disse che aveva provveduto a vendere la casa di Fondachello. L’aveva ceduta a un’anziana coppia, titolari di un’Agenzia di Pompe Funebri, a cui si era rivolta per lasciare ogni cosa in ordine, anche in previsione del suo funerale. Fuori era ancora inverno. Mi ricordo che sospirò e soggiunse: “Mi piacerebbe arrivare a primavera, per stare ancora con gli amici, per fare quella festa…”
Poi mi confidò che si sentiva serena e che aveva perdonato tutti. Non ce l’aveva più neanche coi Tedeschi. E si era riconciliata persino con la vicina, con la quale non erano mancati dissapori, per sciocchezze. Era pronta. Ma, nonostante fosse ben consapevole di essere giunta al termine, non perse mai l’ironia e il gusto di un certo sorriso birbante. L’ultima volta che andai a trovarla, i nuovi proprietari dell’appartamento vicino al mare erano ancora nella camera della Signora. Lei me li presentò per nome e quando uscirono, ammiccando al loro indirizzo e ridendo, mi disse a basse voce: “Questi sont quels de li morts!”
Pochi giorni ancora e Susanna piccola mi telefonò, per comunicare la dipartita della Madrina. Madame Suzanne Kalisz, assistita dalle persone che l’amavano, è spirata serenamente il 17 marzo del 2005. Al suo funerale, pochi intimi, anche quelli dell’ultima ora. Sulla sua tomba, non mancano mai i fiori. Ecco perché ogni anno, all’approssimarsi della Giornata della Memoria, andavo in giro per le Classi tenendo fra le mani la mia eredità: un piccolo, prezioso binocolo da teatro, un oggetto d’altri tempi. Quando spiegavo di che si trattasse, aggiungevo che, forse, mi era stato regalato per vederci meglio e guardare un po’ più lontano sul palcoscenico della Storia, fin dietro le quinte…
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Emozionante, pregevole contributo! Grazie!