5 gennaio 2025, più di quarant’anni dall’assassinio mafioso di Giuseppe Fava. Nella vulgata comune di quel tempo la mafia era “questione palermitana”, Catania e la Sicilia orientale ne erano esenti. Fu difficile, perché tanti remarono contro (ci fu persino chi costituì comitati ad hoc per difenderne il buon nome) ma, alla fine, la Città perse, non tutta e non senza significative resistenze, la presupposta innocenza. Furono soprattutto i giovani a guidare questo cambiamento, a partire dai tanti “carusi” della redazione de I Siciliani, costretti a diventare grandi velocemente, a crescere nella consapevolezza che bisognava contrastare un intero sistema, politico ed economico, che ruotava intorno a quelli che Giuseppe Fava aveva chiamato i “cavalieri dell’apocalisse”.
Oggi, in una Città in cui rimane un’allergia alle regole e alla corretta amministrazione della cosa pubblica, in cui è tristemente naufragato il mito della Milano del sud e si fatica a individuare un possibile sviluppo alternativo, in cui la mafia spara meno, ma non per questo ha allentato la sua morsa mortale, è fondamentale fare tesoro del passato. Per questo, proponiamo uno scritto di Claudio Fava, del 1984, che riteniamo, purtroppo, ancora attuale.
FUNERALI DI STATO. MIO PADRE SORRISE (da “I Siciliani”, gennaio 1984)
Io non so come mio padre avrebbe descritto il proprio funerale, ma credo che si sarebbe divertito.
C’era il sindaco, fasciato nel tricolore come un pugile, c’era un Presidente, abito blu scuro appena stirato, le mani cristianamente congiunte e appoggiate sul ventre, c’erano tanti occhiali scuri, come da copione, e le cravatte serie, e le scarpe di vernice nera.
C’era un mesto silenzio, in chiesa, ed ognuno inseguiva i propri pensieri tenendo lo sguardo adagiato sulla bara di mogano:
«Chissà perché…»
«Se l’è cercata lui!»
«Scarpe strette, maledizione…»
«E adesso, a chi tocca?»
«Nella misura in cui… nella misura in cui…»
Nella misura in cui, disse più tardi il sindaco, in municipio, accanto alla bara.
Qualcuno cantava il Nabucco, e mia madre piangeva, e c’era chi fischiava piano. Io pensavo a mio padre, dentro quella bara che odorava di resina, con il Cristo di bronzo crocifisso sul coperchio e i sigilli di ceralacca rossa dell’ufficiale sanitario; l’ultima volta, mio padre, l’avevo visto nella sala grande dell’istituto di medicina legale, su un lettino di ferro: la sua grande testa, la fronte larga, con le rughe dure e profonde, la barba nera e grigia, quella grande bocca, grande e sottile. Ed il corpo minuto, nudo, immobile sotto il lenzuolo bianco.
Ci avevano raccomandato di non baciarlo, e di non toccarlo, e in un angolo c’era un signore che si infilava un camice verde. Due ore prima del funerale lo avevano rivestito. Il giubbotto di lana, quello bianco elegante, la camicia di seta pure bianca, le scarpe nere. Poi avevano chiuso la bara.
Nella misura in cui, disse il sindaco, ed il Nabucco arrivò all’ultima strofa.
Una volta mio padre aveva scritto un pezzo sui funerali di Stato, questo buffo rito siciliano con i mandanti del delitto spesso confusi, abito blu da cerimonia ed occhiali scuri, nelle prime file della cattedrale. Era un pezzo allegro, nonostante tutto: mio padre aveva sorriso di tanta mestizia, delle omelie traboccanti di superlativi e di ammonimenti minacciosi, della folla che alla fine applaudiva sempre, commossa e composta, e dei bambini levati in alto, dei garofani, dello sguardo compunto e professionale dei becchini.
E avrebbe riso forte, mio padre, se qualcuno avesse predetto per lui la stessa cerimonia, gli stessi personaggi paludati e il coro e la folla plaudente e il discorso delle autorità.
I colleghi mi hanno detto: scrivi un pezzo, ma senza commemorazioni, a tuo padre non sarebbero piaciute. Non gli sarebbero piaciuti neanche i funerali di Stato e una piazza con sopra scritto il suo nome.
Semplicemente non gli sarebbe piaciuto morire: troppo banale, troppo retorico, troppo inutile. Infinitamente più affascinante vivere. Infinitamente più difficile in questo paese.
Chi ha voluto che mio padre fosse ucciso, non ha avuto bisogno di riunire tribunali mafiosi, di processare fantasmi, di emettere sentenze di morte; sarà stata sufficiente una strizzata d’occhi, un cenno del capo: è un uomo pericoloso, avranno detto, un uomo libero, e le sue parole feriscono.
E non credo – qualcuno lo ha scritto – che quel killer, con le cinque revolverate sparate alla nuca di mio padre, abbia ucciso anche se stesso, la propria speranza di redenzione, la propria ribellione contro l’emarginazione e contro il destino di uomo pagato per uccidere altri uomini. Balle.
Quelle speranze le ha uccise la violenza e la stupidità di centomila voti o di cento miliardi; e le abbiamo uccise anche noi che, dopo i funerali di Stato, torniamo silenziosamente a vivere, mentre qualcuno già raccoglie le corone di fiori per rivenderle al prossimo feretro.
Il fatto è, mi hanno garbatamente spiegato, che la vita continua. E allora ho ricominciato, abbiamo ricominciato a vivere, per ritrovare il coraggio di lottare fino in fondo quella stupidità e quella violenza. Ma capisco che oggi il mio è un coraggio diverso, perché è fatto anche di amarezza e di solitudine.
Ho un solo rimpianto, essere vissuto accanto a mio padre troppo in fretta. Ma ho molti ricordi, dolcissimi e tristissimi (chiedo scusa, è già commemorazione…): il suo gusto per gli aggettivi, parole affabili, misteriose, provocanti che la sua immaginazione cercava di ricondurre a realtà spesso più grigie, più banali; e la sua infinita timidezza, il suo esuberante desiderio di esistere e l’angoscia di non riuscirvi sino in fondo.
E poi quella prima semplice verità che m’insegnò su questo mestiere: dietro ogni fatto, mi disse una volta, dietro ogni notizia, banale o terribile, c’e sempre il destino, banale o terribile, di un uomo; e dietro ogni nome c’è un volto, c’è una storia: di passione, di tragedia, di quotidiana miseria, di abitudine. Storie di esseri umani: e non vanno mai derise, mai giudicate. Solo rispettate.
A me sembrò un po’ banale, quella prima lezione di mestiere. Ma il mestiere, quella volta, non c’entrava.
Grazie per aver riproposto questo bellissimo intervento!