Un territorio che misura 345 Kmq (il doppio della città di Catania, che ne misura 182, con circa trecentomila abitanti), e una popolazione di 2.300.000 abitanti, su cui gli israeliani hanno sganciato 78 milioni di Kg di bombe, pari a 40 Kg pro capite.
Parliamo di Gaza, la terra di Sharif Hamad, il giovane palestinese intervenuto lo scorso sette luglio all’evento organizzato da Gammazita, “J’accuse”, svoltosi in Piazza dei Libri con la partecipazione di un folto pubblico, molto interessato.
Cresciuto durante la prima Intifada, Sharif – figlio di un coltivatore di agrumi su 150 ettari di terra – nel 2002 è andato a studiare in Yemen, anche se “uscire e rientrare a Gaza è stato sempre molto complicato per via dei permessi che devi chiedere e non sempre ottieni”.
Il suo racconto nasce dall’esperienza vissuta ed è per questo credibile. Sharif lo ribadisce, ringrazia per l’opportunità offertagli di raccontare come stanno davvero le cose e denuncia la narrazione distorta dei media.
“Oggi a Gaza non ci sono più né asili nè scuole, non si può coltivare la terra, non c’è acqua, non si può praticare la pesca. Non è possibile vivere. Per questo la resistenza armata è un dovere” – afferma.
Racconta di tutte le volte che gli hanno distrutto la casa, del fratello di 33 anni che gli hanno ucciso, del figlio di tre anni che hanno ferito, un bambino che Sharif – che si trovava in Italia – non aveva ancora conosciuto. “Quando sono rientrato, ho ricostruito la casa, ma senza specchi e con piccole finestre per evitare di essere colpiti”, e quasi ci commuovono queste precauzioni al pensiero dei potenti strumenti tecnologici in mano all’esercito israeliano.
Ma Sharif procede deciso, “Noi palestinesi vogliamo rimanere, ricostruiamo e andiamo avanti! Nel nostro vocabolario la parola ‘arrendersi’ non esiste”.
E cita il loro essere religiosi ma non radicali, almeno fino a quando non hanno sperimentato quanto sia difficile vivere sotto l’occupazione israeliana. L’occupazione stessa gli appare come un crimine, un crimine che ricorre anche nei suoi sogni, “Israele non è uno stato legittimo perché occupa ‘casa mia’”.
Ecco perché – conclude – è necessario porre fine all’occupazione, ristabilire la giustizia, la libertà e il principio di autodeterminazione del popolo palestinese. “E poi verrà la pace”.
Dall’esperienza personale di Sharif, dal suo approccio soggettivo, si passa a quello impersonale, storico e giuridico di Francesca Albanese, giurista e docente specializzata in diritto internazionale e diritti umani, autrice – insieme a Christian Elia – di “J’accuse. Gli attacchi del 7 ottobre, Hamas, il terrorismo, Israele, l’apartheid in Palestina e la guerra” (Fuori Scena, 2023).
Il diritto e la conoscenza storica, il passato e il presente dei territori occupati di Gaza sono gli strumenti di analisi da lei adoperati. Ma questo non ha impedito al governo di Tel Aviv di ‘schedarla’ come antisemita, negandole il permesso di entrare in Israele.
Parlare dell’eccidio dei Palestinesi in atto a Gaza e a Rafah, con oltre 28.000 vittime (ma il numero va purtroppo aggiornato) di cui più del 70% donne e bambini, o denunciare come inaccettabile la spropositata reazione di guerra del governo ultraradicale di Israele, definendola genocidio, è diventato – per i suoi detrattori – “avercela con gli ebrei”.
Nel suo intervento Albanese è partita proprio dalla definizione di “genocidio”, inteso come distruzione di un popolo. Un termine nato dopo l’olocausto degli ebrei – osserva – sebbene non sia l’unico genocidio della storia, ma l’unico compiuto in Europa, avendo i tedeschi già sperimentato in Namibia, contro gli Herero colonizzati, le stesse pratiche brutali di sterminio. Quanto a noi ci chiediamo, per inciso, come mai non abbia citato il genocidio armeno, anche se in effetti l’impero ottomano era solo in parte europeo.
A coniare il termine genocidio – prosegue Albanese – fu, nel 1944, un avvocato ebreo polacco Raphael Lemkin (1900-1959) che unì il prefisso greco ‘geno’ (razza o tribù) con il suffisso ‘cidio’ dal latino uccidere, intendendo per genocidio non solo la distruzione fisica (in diritto internazionale si parla di sterminio) ma anche le azioni che impediscono la sopravvivenza culturale e politica di un popolo.
Dunque il genocidio – per Albanese – è insito nel colonialismo di insediamento e si è verificato nei 500 anni di storia in cui decine di milioni di individui sono morti a causa dell’arrivo dei colonizzatori, a partire da quelli spagnoli e portoghesi: dalle Americhe, all’Africa, all’Australia, alla Nuova Zelanda, ecc.
Quanto a Israele, è vero che è stato riconosciuto come ‘Stato sovrano’ all’indomani dell’olocausto, ma – a parere della studiosa – dietro il sostegno inglese alla migrazione degli Ebrei verso la Palestina c’era non solo la coscienza sporca di un’Europa antisemita, ma anche un progetto di occupazione territoriale a scapito degli arabi palestinesi. Non a caso ha ricordato le settecentomila persone che, tra il 1947 e il 1949, sono state espulse dalla loro terra.
Da allora Israele si è sempre più espansa mentre gli spazi dei palestinesi, anche nei territori non ricadenti sotto la sovranità di Israele, si sono ristretti, tanto che ogni villaggio è ora circondato da colonie e basi militari – ricorda Albanese.
Nel 2018 è stata approvata una legge, sostanzialmente costituzionale, che definisce Israele come Stato-nazione del popolo ebraico. E’ stata così riconosciuta l’appartenenza della sovranità dello Stato esclusivamente agli ebrei israeliani, e non agli arabi palestinesi, con il conseguente riconoscimento di una cittadinanza differenziata (di serie A ovvero di serie B).
Sebbene Israele consideri legittima l’attuale guerra – precisa Albanese – dal punto di vista del diritto internazionale essa non lo è. Israele, infatti, non può utilizzare la violenza armata contro un popolo che tiene – almeno di fatto – sotto occupazione.
Anche sulla resistenza armata dei palestinesi, Albanese chiarisce che il diritto internazionale tutela il diritto di resistenza, in quanto “c’è un principio fondamentale che spesso dimentichiamo, il diritto all’autodeterminazione di un popolo, il diritto collettivo per eccellenza, il diritto di esistere”: ogni popolo ha diritto di autodeterminarsi, fare scelte politiche, avere una propria cultura e una propria religione, utilizzare le proprie risorse.
L’occupazione dei territori palestinesi è illegale perchè non permette ai palestinesi di esercitare il diritto all’autodeterminazione ovvero di essere liberi in quei pochi spazi che sono a loro rimasti. E, se il suo diritto di autodeterminazione viene messo in pericolo, un popolo ha il diritto di resistere.
Ci sono, tuttavia, osserva Albanese, dei limiti al diritto di resistenza: non è vero che la resistenza è sempre giustificata, con qualsiasi strumento. Se dobbiamo farci guidare dal diritto, dobbiamo sapere – ad esempio – che esso esclude che si possano ammazzare civili e prendere ostaggi. E’ un chiaro riferimento agli eventi del 7 ottobre e agli ostaggi israeliani, a cui è andato il pensiero della relatrice, seconda la quale “non possiamo tuttavia dimenticare i 9000 palestinesi detenuti nelle carceri di Israele, senza processo e senza neppure conoscere i capi d’accusa”.
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