Che ci siano differenze tra Nord e Sud, e in genere tra le Regioni italiane, è un dato di fatto. Che vengano sancite a livello normativo da un governo che ostenta la sua continuità con il fascismo, nemico giurato di ogni autonomia periferica, è un paradosso.
Non l’unico, visto che il progetto di Autonomia Differenziata costituisce un vulnus rispetto ai principi essenziali della nostra Costituzione, su cui gli attuali governanti hanno giurato, sia pure recalcitrando davanti al suo carattere antifascista.
Il rapporto tra Costituzione e Autonomia Differenziata è stato il tema di apertura del convegno del Centro Studi per la Scuola Pubblica (Cesp), promosso dai Cobas Scuola, che si è svolto, al Liceo Boggio Lera, nella mattina di giorno 29, proprio lo stesso giorno in cui – alle 15 del pomeriggio – il testo del progetto Calderoli entrava in aula alla Camera.
Di Costituzione e AD ha parlato Ernesto De Cristofaro, docente di storia del diritto all’Università di Catania, a partire da quanto recita l’articolo 5 della Costituzione: “la Repubblica riconosce e promuove le autonomie locali …”. Una formulazione che costituisce la presa d’atto di una situazione esistente, ma che è ben lontana dal sancire le differenze a livello normativo.
De Cristofaro ha poi ricordato che, nella prima fase dello Stato repubblicano, le autonomie regionali erano avvertite come un pericolo e, dopo la concessione delle autonomie speciali, avvenuta sotto la spinta di situazioni particolari (in Sicilia, la minaccia del separatismo), bisognò attendere venti anni, il 1968, per attivare le autonomie ordinarie. Nel periodo successivo iniziò una “torsione verso il decentramento”, proseguita negli anni Novanta e coronata nel 2001 dalla riforma del titolo V della Costituzione, che modifica il rapporto Stato-Regione, riducendo le competenze esclusive del primo e ampliando le cosiddette competenze concorrenti.
Con l’articolo 116 vengono consentite “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” ad altre Regioni “su iniziativa della Regione interessata”. Ed è quello che è avvenuto con le trattative avviate, nel 2018, da Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, alcune delle Regioni più sviluppate. Come il professore ha rimarcato, lo scopo di queste Regioni è quello di trattenere per sé le risorse economiche evitando la redistribuzione che, come previsto dall’art.53 della Costituzione, contribuirebbe a superare le disuguaglianze tra i territori. Un altro tradimento dello spirito della Costituzione.
Un altro problema è rappresentato dai Livelli Essenziali delle Prestazioni (Lep), presentati come una garanzia di equaglianza. Come dirà più avanti un’altra relatice, Marina Boscaino, chi stabilisce quali sono i livelli ‘essenziali’? Cosa accade se ci sono Regioni che non hanno risorse sufficienti per garantirli? Dovrebbe intervenire lo Stato e non fare come è avvenuto con la legge di bilancio del 2023, che ha stabilito come criterio il costo standard dei servizi: un tradimento del fondamentale art. 3 della Costituzione che riconosce la totale uguaglianza dei cittadini.
A nome dei “Comitati per il ritiro di ogni autonomia differenziata, l’unità della repubblica, l’uguaglianza dei diritti” è intervenuta, on line, Marina Boscaino, insegnante, trattenuta a Roma dalla manifestazione prevista per il pomeriggio. La relatrice ha sottolineato come scuola e sanità siano i settori più minacciati dalla frammentazione insita nel progetto di AD, secondo il quale “nascerebbero 20 staterelli a marce differenti, ciascuno con il proprio sistema scolastico, sanitario,..”.
In particolare, nella scuola c’è la concreta possibilità di una regionalizzazione dei percorsi e dei programmi scolastici, così come degli stipendi del personale. Se il disegno si completasse, in sostanza, verrebbe meno il ruolo della scuola così come delineato da Piero Calamandrei: “La scuola, organo centrale della democrazia, perché serve a risolvere quello che secondo noi è il problema centrale della democrazia: la formazione della classe dirigente”. Una classe dirigente del Paese, non delle singole regioni.
Boscaino sottolinea come il disegno di legge neghi i diritti dei cittadini del Sud. Cita i dati Svimez, l’autorevole centro studi sulle condizioni economiche del meridione: i 90 miliardi di euro che servirebbero per sanare le differenze tra Nord e Sud, le ore di tempo scuola che i bambini meridionali perdono rispetto ai coetanei settentrionali, a causa della quasi totale assenza di tempo pieno nelle regioni meridionali.
Cosa farebbe allora questo progetto di autonomia se non legittimare le disuguaglianze già oggi molto evidenti? “Avremo diritti differenti dei cittadini a seconda del certificato di residenza”, ribaltando completamente i dettami della Costituzione. Ed inevitabilmente cita l’uguaglianza sostanziale sancita dall’art.3
Quanto ai Livelli Essenziali delle Prestazioni, Boscaino afferma che “a tutti, e su tutto il territorio nazionale, devono essere garantiti livelli di prestazione uniformi”, che attuino il principio di uguaglianza ancor più di quanto sia stato fatto fino ad ora, differenziando eventualmente gli interventi per dare di più a chi ha meno, e non viceversa. E’ questa la “gigantesca riforma dello Stato sociale” che servirebbe.
A oggi, però, i LEP non sono stati definiti, per cui si potranno approvare solo le materie che non ne necessitano. Un modo per forzare i tempi e fare partire il progetto di AD, sollecitato soprattutto dalla Lega e accettato da Fratelli d’Italia in cambio del voto favorevole al premierato.
Non può dirsi, tuttavia, che il disegno di legge Calderoli abbia trovato ampi consensi nel mondo politico ed economico. Boscaino enumera tutte le voci autorevoli che si sono espresse in modo negativo sull’Autonomia differenziata, dall’Ufficio parlamentare di Bilancio alle Confindustrie del Sud, dalla Banca d’Italia ai ‘saggi’ dimessisi dal Clep, fino alla stessa Unione Europea che ha manifestato aperte perplessità. Enti di grande prestigio, non certo liquidabili come pericolosi sovversivi.
La relatrice ha, infine, paventato la “liquidazione di tutto ciò che è pubblico e finalizzato all’interesse generale” per aprire alla privatizzazione in ogni settore.
Un tema, quello della privatizzazione, che avrà molto spazio nella relazione di Luciano Nigro, già docente di malattie infettive all’Università di Catania, intervenuto sul tema della sanità con una relazione dal titolo provocatorio “Esiste ancora la tutela della salute?”.
Nigro taglia corto e afferma che nella sanità “l’Autonomia Differenziata è già in atto, da tempo”. E descrive il percorso subìto dal “sistema mutualistico” a partire dalla nascita del Servizio Sanitario Nazionale nel 1978, efficiente e gratuito, che introdusse due pilastri della sanità, la prevenzione e la riabilitazione, di cui si è via via ridotta la centralità. La riduzione dei finanziamenti alla prevenzione non ha ridotto i costi complessivi della sanità, li ha piuttosto accresciuti.
Oggi – dice Nigro – la spesa sanitaria è suddivisa tra i costi degli stipendi, quelli dell’edilizia ospedaliera, e quelli per diagnosi e cura, che comportano spese per farmaci e attrezzature, ma ignorano la prevenzione. E una fetta consistente della spesa è quella per la medicina convenzionata, con prestazioni offerte da strutture private riconosciute dal Servizio Sanitario Nazionale.
La situazione si aggrava con l’introduzione della legge 502 del 1992, che trasforma le unità sanitarie in aziende che devono stare in una logica di mercato e ne trasferisce la responsabilità, finanziaria e gestionale, alle Regioni. Da quel momento le Regioni, oltre ai trasferimenti dello Stato potranno fare cassa con l’intramoenia e l’introduzione dei ticket. La sanità perde così il carattere di assistenza totalmente gratuita, stabilisce differenze tra i cittadini che possono permettersi di pagare e quelli che non possono.
Il sistema si perfeziona con la legge del 1999, che ridefinisce i principi del diritto alla salute, la programmazione sanitaria e i LEA ovvero i livelli essenziali di assistenza. Visto che non tutto può essere erogato gratuitamente, ci si incammina verso la privatizzazione, soprattutto al Nord.
E diventa centrale la mobilità sanitaria, quella che sarebbe messa a rischio dal disegno di legge Calderoli.
Per avere servizi migliori, i pazienti del Sud si spostano verso le regioni del Nord, soprattutto la Lombardia, con conseguente trasferimento di risorse dal Sud al Nord. Le regioni meridionali pagano infatti quelle settentrionali per questi servizi sanitari, e il meridione si impoverisce, a livello di risorse sia pubbliche sia private. Chi parte, infatti, viene accompagnato almeno da un familiare che perde giornate di lavoro e deve pagarsi alloggio, pasti, trasporti.
Un vero e proprio drenaggio di ricchezza. Le Regioni che sono meta di questi trasferimenti, invece, si arricchiscono. I dati parlano di guadagni dell’ordine di 601 milioni in Lombardia, e di perdite di circa 179 milioni in Sicilia. Solo due delle Regioni interessate.
Davanti a questa situazione in continuo peggioramento, si chiede Nigro, cosa hanno fatto i cittadini, e soprattutto i medici? L’Anaao, un sindacato di medici e dirigenti sanitari italiani, che oggi protesta contro l’AD, dov’era quando queste trasformazioni avvenivano? Perché taceva?
Ora si è arrivati, come dice il Censis, al 4% dei pazienti che, nel 2023, ha rinunciato a curarsi o che è costretta a procrastinare le cure, con grave rischio per la salute.
Alcuni servizi esistono solo in alcune Regioni e non sono stati attivati in altre. La medicina convenzionata assorbe quote crescenti di finanziamento, cresce l’utilizzo dei medici a gettoni (che guadagnano moltissimo e scoraggiano l’impegno degli strutturati), mentre le risorse assegnate per l’edilizia sanitaria non vengono adoperate.
Una situazione estremamente contraddittoria in cui vengono a mancare soprattutto i servizi per l’emergenza, come si vede dalla crisi dei pronto soccorso, che non può essere risolta con il ricorso alle convenzioni con il privato, che non fa servizi di emergenza.
Una situazione drammatica che taglia fuori i gruppi sociali più vulnerabili, dai migranti a coloro che sono sotto la soglia di povertà.
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@Argo non siamo riusciti ad unire l'Italia in 163 anni, quindi non ci resta che ritornare a come eravamo.