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Mafie al Nord, dai reati violenti alla piena integrazione

Una mafia che non spara, non è estranea al corpo sociale ed è ben mimetizzata nel tessuto economico. Una mafia di cui imprenditori, professionisti, amministratori richiedono i servizi per ottenere maggiori guadagni.

Sono queste le “Mafie al Nord Italia” descritte da Alessandra Dolci, coordinatrice della Direzione Distrettuale Antimafia del Tribunale di Milano, e Mario Portanova, giornalista di FQ Millennium, in occasione del terzo incontro dei Seminari d’Ateneo 2024, intitolati al giudice Scidà.

Cade così il teorema secondo cui il tessuto sociale sano e l’elevato senso civico del Nord fossero anticorpi sufficienti ad impedire l’infiltrazione delle mafie, considerate fenomeno tipico del Mezzogiorno d’Italia.

La consapevolezza del radicamento delle mafie nelle regioni settentrionali è – secondo Portanova – ormai acquisita, e viene continuamente confermata dallo scioglimento di amministrazioni comunali ‘inquinate’, da indagini giudiziarie, da inchieste giornalistiche.

Un percorso iniziato – ricorda Dolci – alla metà degli anni Cinquanta, provocato dalla diffusione dei provvedimenti di soggiorno obbligato, dall’esigenza di sfuggire alle faide, dall’attrazione che lo svilippo economico del Nord esercitava sugli appettiti speculativi della criminalità organizzata. Si trattava, allora, di attività illecite (traffico di stupefacenti, sequestri a scopo di estorsione) che raccontavano una mafia estranea al corpo sociale.

La mafia che ritroviamo da qualche decennio, dopo anni di buio investigativo – prosegue Dolci – ha caratteristiche molto diverse ed i mafiosi ne sono consapevoli: dalle intercettazioni sappiamo che si sentono parte di “un sistema senza spari” che “cambia tutto”.

I reati ormai sono soprattutto di tipo economico, la bancarotta fraudolenta, i reati fiscali, la creazione di società fittizie che nascono per fallire, la strumentalizzazione del sistema cooperativistico. Sono reati ‘normali’ che dimostrano una piena integrazione nel corpo sociale.

Dolci e Portanova concordano: imprenditori e professionisti hanno capito che i mafiosi “fanno bene il loro lavoro” e li fanno guadagnare di più. Nei cantieri “non manca niente”, la manovalanza viene offerta a prezzi concorrenziali, i servizi dei mafiosi non hanno bisogno di essere imposti con le minacce, vengono richiesti dagli stessi imprenditori, che ne hanno scoperto la convenienza.

Se qualcuno è stato inizialmente vittima di estorsione, non denuncia. Anzi mette a disposizione la propria società e le proprie conoscenze in materia fiscale. Del resto, quale può essere l’interesse a denunciare se i vantaggi sono reciproci?

Una mafia diversa, quindi, di cui ci parla anche la quasi totale assenza di reati spia raccontata da Dolci. I reati che una volta indicavano la presenza mafiosa, gli incendi dolosi in cantiere, il danneggiamento dei mezzi, l’invio di proiettili di avvertimento, sono sempre più rari. Ormai gli inquirenti si meravigliano di trovarne ancora, li considerano un residuo del passato, non più al passo coi tempi.

Non tutta la magistratura è consapevole di questa trasformazione, tanto che è accaduto che qualche giudice per le ingagini preliminari non abbia riconosciuto l’aggravante del metodo mafioso e abbia negato, in alcuni casi, la custodia cautelare in carcere per l’assenza di quei fattori identitari della mafia che si aspettava di trovare.

A comandare, dagli inizi degli anni Novanta, sono i calabresi della ‘ndrangheta, con la collaborazione dei siciliani di Cosa Nostra e dei camorristi campani, all’interno di un Consorzio di cui hanno parlato alcuni imputati che hanno scelto di collaborare. Un modello federativo vincente, che si è affermato anche in Svizzera, in Germania, in Australia. E che in Italia è presente non solo in Lombardia ma anche in Piemonte, Liguria, Emilia e persino in Valle d’Aosta.

Portanova racconta che, come è accaduto in passato anche in Sicilia, dove parlare di mafia era considerato sconveniente perché danneggiava l’immagine della regione, il negazionismo si fa strada anche al Nord, come nel caso di amministratori restii a riconoscere la presenza della mafia perché questo potrebbe allontanare i turisti e danneggiare l’economia locale. Eppure i processi fanno luce su legami non limpidi esistenti, da generazioni, tra comunità locali di origini calabresi e i rispettivi paesi d’origine, così come è nota l’autorità di veri e propri boss la cui autorevolezza è riconosciuta dalle comunità locali.

Ma la trappola più grave in cui rischiamo di cadere è quella della normalizzazione. Una mafia che non spara, che commette reati ‘normali’, simili a quelli dell’imprenditoria non mafiosa, ci può sembrare accettabile, non pericolosa. Ci possiamo assuefare ad essa come rischiamo di assuefarci alla corruzione. Come la corruzione, una mafia che non spara sembra che non faccia vittime.

Ma le vittime ci sono – ammonisce Portanova – e così le vite distrutte. Per inseguire affari miliardari non si guarda in faccia nessuno. E l’etica è la prima a scomparire.

Sulla morte dell’etica e sul ruolo della magistratura inquirente si interroga, in conclusione, Alessandra Dolci. Se la società accetta e ingloba questa mafia apparentemente inoffensiva, un magistrato serio e impegnato non può non interrogarsi su quale senso abbia il prorio lavoro. E Dolci lo fa, con coraggio ed onestà, davanti a tutti. Mettendoci tutti in crisi.

Argo

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