“Una Chiesa evangelica, povera, attenta agli ultimi, libera dai condizionamenti della politica, non sarebbe ‘corteggiata’ dalla mafia”. Ancora, “se la Chiesa non avesse addomesticato il Vangelo, se le comunità cristiane fossero ‘diverse’ rispetto ai valori del mondo, lontane dalla ricerca del denaro e del potere, i mafiosi non le frequeterebbero, non avrebbero nulla da spartire con esse. Anzi le contrasterebbero”.
E’ questa la posizione espressa da Augusto Cavadi, docente e scrittore impegnato in attività sociali, sul rapporto Chiesa-Mafia, di cui si è discusso nel primo incontro dell’undicesimo Seminario d’Ateneo in memoria di Giambattista Scidà, giovedì 18 gennaio, presso l’Auditorium dei Benedettini.
Quello di Cavadi è sostanzialmente un invito ai credenti perché facciano un esame di coscienza interrogandosi sul motivo per cui la Chiesa è stata sempre considerata dagli uomini di mafia come una grande casa in cui “ognuno ci sta dentro a modo proprio”, come dice don Mariano ne “Il giorno della civetta” di Leonardo Sciascia. Di più, come una alleata, un’istituzione che permette in occasione di cerimonie religiose come matrimoni, battesimi, funerali, di fare sfoggio di ricchezze e dimostare il proprio potere. O, nel caso di feste popolari e processioni, di segnalare l’ossequio al potere mafioso con l’inchino della statua del santo davanti alla dimora del boss.
A questi casi e al testo di Sciascia ha fatto riferimento, nel suo intervento, il vescovo Luigi Renna, per il quale – tuttavia – a partire dagli anni novanta, si deve registrare un cambio di passo da parte delle gerarchie ecclesiastiche.
Con il documento su “Chiesa e Mezzogiorno” dell’ottobre 1989, i vescovi italiani esprimono una condanna radicale della criminalità organizzata che sarà ripresa da un ulteriore documento del 2010, “Per un paese solidale”, in cui le mafie sono definite “strutture di peccato”. E viene, contestualmente, riconosciuto il “cammino ancora da compiere” perché l’esempio e la testimonianza di chi ha sacrificatio la proria vita nella lotta o nella resistenza alla malavita organizzata, come don Pino Puglisi o don Peppino Diana, non restino un fatto isolato.
Dalle parole di Renna sembra, tuttavia, emergere un percorso lineare di presa di distanza dalle compromissioni con la criminalità organizzata: le reticenze del cardinale Ruffini sulla strage di Ciaculli del 1963 vengono via via superate per arrivare alla minaccia di scomunica prospettata da papa Francesco nella sua visita pastorale del 2014 a Cassano allo Jonio.
Una rappresentazione che – a parere di Cavadi – rischia di determinare un ingiustificato trionfalismo, perché “per un Pino Puglisi che non cede ai compromessi, ci sono molti altri preti che, piuttosto che opporsi, cercano di ‘mediare’, quando non sono di fatto complici”.
Una complicità che può essere più o meno sfumata, soprattutto quando i mafiosi chiedono alla Chiesa benedizioni e assoluzioni, senza per questo cambiare stile di vita. Tanto che, quando dal pubblico perviene una domanda sulla possibile strumentalizzazione del perdono cattolico da parte dei mafiosi, Cavadi risponde con l’esempio del latitante Pietro Anglieri, nella cui cappella personale don Mario Frittitta andava a dire messa, portandosi dietro anche i messaggi del boss. Al di là della vicenda processuale di questo prete, condannato in prima istanza e poi assolto in appello, una commissione istituita da De Giorgi, vescovo di Palermo, redasse una sorta di vademecum per i preti che incontravano i latitanti. Potevano certamente aiutarli a convertirsi purché la riconciliazione con Dio non fosse un fatto privato dell’uomo di mafia con il Padreterno ma prevedesse una riconciliazione con le vittime e la consegna alle autorità civili per pagare il proprio debito con la giustizia.
La posizione dei cattolici – dice ancora Cavadi – non è differente da quella degli altri siciliani: accanto ad una minoranza complice e ad un’altra minoranza che coraggiosamente contrasta, esiste una maggioranza che si illude di essere equidistante ma che della mafia diventa di fatto “il brodo di coltura”.
Anche sulla indifferenza che prevale nei più – insiste Cavadi – la Chiesa ha le sue responsabilità: “In quante chiese si condanna dal pulpito il pagamento del pizzo come reato grave? In quante si predica che non si possono votare, in coscienza, uomini politici che, dopo aver scontato una pena per aver favorito la mafia, tornano in campo con i simboli cristiani ma con i sistemi che della mafia sono propri, a partire da favoritismi e clientelismo?
Nelle chiese – prosegue il professore – va predicata una etica forte, diversa da quella maschilista, patriarcale, escludente nei confronti dei più fragili, fondata sull’obbedienza cieca, che tanto somiglia al codice della criminalità organizzata.
Sull’importanza dell’etica nel contrasto alle mafie ritorna anche un altro relatore, Francesco Sciotto, pastore della chiesa valdese di Messina e presidente della Diaconia Valdese.
L’etica deve riguardare non solo il piano personale e privato – dice Sciotto: nella Bibbia si insiste sulla necessità di ristabilire il diritto, difendere l’orfano e la vedova, prendersi cura degli ultimi e degli esclusi. La mafia, invece, “contribusice a rendere gli ultimi sempre più ultimi, ad escluderli dal diritto e dalla partecipazione”.
Delle esperienze di resistenza civile e di lotta alla mafia di cui è stato protagonista il mondo protestante, Sciotto ricorda quelle promosse da Pietro Valdo Panascia, autore nel ‘63 di un manifesto contro le stragi mafiose e creatore a Palermo del Centro Diaconale “La Noce”, e da Tullio Vinay, fondatore a Riesi di un Centro di Servizio a favore della popolazione, che fu anche un avamposto contro la mafia. Ricorda anche il gran numero di donne impegnate in queste battaglie e spesso dimenticate, non avendo le donne ancora raggiunto quel riconoscimento e quel ruolo, anche apicale, che oggi rivestono nelle comunità protestanti.
I valdesi, d’altra parte, proprio perché minoritari da un punto di vista numerico, sono sempre stati attivamente inseriti nella società, ne hanno condiviso i problemi e anche l’impegno civile. “Se le Chiese – prosegue Sciotto con passione – restano chiuse nei loro riti, non incontrano mai la società, non stabiliscono con essa un rapporto permeabile”.
E, da presidente della Diaconia Valdese, l’equivalente della Caritas cattolica, mette in guardia sul rischio proveniente dal ruolo sussidiario che questi enti svolgono nella società. A causa di questo ruolo, “gestiscono molti soldi e rischiano di essere permeabili alle mafie, che mirano al denaro pubblico e al suo utilizzo, anche nel sistema sanitario e nel welfare”.
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