La storica medievista Marina Mangiameli, amica e collaboratrice di Argo, ci presenta il documentatissimo lavoro di Tancredi Bella sulla cattedrale di Catania.
Passeggiando per la città, spesso non ci si rende conto di posare lo sguardo distratto su secoli e secoli del nostro passato, di guardare e non vedere testimonianze preziose, di calpestare il terreno che prima di noi ha sorretto progetti ambiziosi e fallimenti gravosi che tutti ci parlano ancora dei nostri pregi e dei nostri difetti.
Il problema più gravoso per la storia della città deriva, com’è noto, dal fatto che fra terremoti ed eruzioni ricorrenti molte fonti importanti sono andate perse. Questo è un problema che gli storici conoscono bene. Ma a ben guardare, e lo dimostra un recente bel contributo di Tancredi Bella (“La cattedrale medievale di Catania. Un cantiere normanno nella contea di Sicilia”, Milano, Angeli 2023), possono esserci altre vie di indagine e le testimonianze a disposizione non sono poi così insufficienti.
Il contributo dell’autore si presenta subito non solo come uno studio rigoroso e completo nello specifico della disciplina cui appartiene ma anche come un contributo che apre le porte alla comprensione della realtà storica senza affidarsi alle leggende e senza postulare soluzioni fantastiche.
Bella “legge” nella dura pietra il significato l’uso e il valore di ciò che resta, guardando, con un approccio interdisciplinare, al valore funzionale degli edifici- ed in particolare della cattedrale- e alle loro traversie. Con questa ottica ci illustra le caratteristiche della vita cittadina ed il significato di queste costruzioni anche nelle varie rielaborazioni che nei secoli sono intervenute o sotto forma di restauri e rifacimenti o come innovazioni.
Così, sotto gli occhi increduli del lettore, si compone il quadro di un edificio molto imponente ma sempre in fieri perché le sue trasformazioni fungono da sostegno a quelle della città, ne riflettono le nuove esigenze o ne testimoniano l’importanza. Ripercorrendo lo schema delle fortificazioni si coglie come l’edificio della chiesa sia il perno di un sistema di difesa in quanto anche il vescovo, guida dell’ordine benedettino, è al tempo stesso un abate ed un conte; il feudatario più fedele, più sicuro per la nuova dinastia che ha preso il controllo dell’isola.
Insomma la centralità della autorità del vescovo è come materializzata in questo solenne e maestoso edificio che viene costruito per esigenze concrete come quella di proteggere la città (si tratta infatti di uno dei pochi esempi di “ecclesia munita”, una chiesa fortificata) e cristianizzare il territorio, ma la sua stessa presenza e composizione mostra un autentico programma politico. Anche se, specie nelle campagne, l’adesione all’Islam era una tradizione che si manteneva salda, in quest’edificio, sovrastato da camminamenti di ronda e adornato dai resti di edifici di età romana, si coglie subito la presenza di una autorità nuova, lo sforzo di costruire un sistema politico-militare nuovo, l’impegno di manifestare saldamente il controllo della città.
Giustamente l’Autore mette in rilievo la grandezza dell’edificio che già il Fazello, un cronista del sedicesimo secolo, aveva sottolineato essere “tota Sicilia maximum”. In altri termini la cattedrale restava certo un edificio di culto ma esibiva anche le caratteristiche militari di luogo di avvistamento e sorveglianza sul mare che ha davanti, la funzione politica di guida della collettività cittadina. Per il resto la cattedrale non sfugge alla pratica, diffusissima all’epoca, del riuso di elementi architettonici anche notevoli come ad esempio l’uso di colonne antiche, probabilmente provenienti dalle terme che vennero addirittura in parte interrate per poter essere integrate nella costruzione. Una costruzione che per certi versi sembra guardare al passato, per altri un programma per il futuro.
Per altro verso un’analisi puntuale di tutte le testimonianze iconografiche, non meno che le osservazioni e le descrizioni di viaggiatori del XVI e XVII secolo, costruiscono progressivamente la visione della cattedrale e delle sue trasformazioni insieme ad una analisi puntuale dei danni causati dai terremoti del XVII secolo(1693) che nello specifico servono a rilevare i cambiamenti e le persistenze nella struttura. Così la testimonianza di Francesco Paternò Castello, membro di una delle casate più nobili della città e deputato alle opere pubbliche nel 1841, osservava nella sua “Descrizione di Catania” che il reimpiego “de marmi e delle colonne che facevano parte del teatro antico” come un importante abbellimento della Chiesa fosse per nulla in dissonanza con le funzioni dell’edificio.
Significativamente l’Autore nota come una tappa importante nello sviluppo della città sia stato il momento in cui divenne città demaniale (1239). Ma, mentre i nuovi rettori della cattedrale prendevano possesso della loro carica e delle relative pertinenze, si avviava un riesame di tutti i beni mobili e immobili della diocesi con la descrizione del loro stato di mantenimento da Anselmo notaio pubblico di Catania (1247). Il limite di questa preziosa fonte sta nel fatto che il pessimo stato di conservazione rende indecifrabili significativi passaggi del documento ma questo prezioso inventario ci testimonia la ricchezza, la potenza e l’influenza del vescovo di Catania. Non a caso questo vescovato era stato scelto da Gualtieri di Palearia come sede del suo ritiro quando le relazioni con Federico II si erano fatte un po’ più difficili.
Nella cattedrale sono presenti non solo le testimonianze della lotta politica in città ma anche dei rapporti di forza fra le varie casate nobiliari, che si contendono il potere e della stessa famiglia regnante. In particolare, sono molto importanti le sepolture degli aragonesi ed anche delle regine Costanza e Maria, l’ultima infelice erede della corona normanno-staufica.
Altro elemento caratteristico e problematico è costituito dal legame con il monastero benedettino.
Le testimonianze archeologiche e il “De rebus gestis Rogerii” di Goffredo Malaterra riferiscono che la costruzione sarebbe cominciata intorno al 1091 il che concorda con un’iscrizione, purtroppo perduta, della stessa epoca citata in opere seguenti, con la “Cronaca” di Michele da Piazza ed anche con tradizioni popolari che testimoniano questo legame anche “fisico” fra la porta del convento e della chiesa. Legame confermato tra l’altro da un Atto del 1489 e così nel 1535 in cui si fa esplicita menzione della giornaliera chiusura serale delle porte del chiostro dei monaci. A completamento del complesso abbaziale doveva stare il cimitero dei monaci, collocato all’incirca nell’area dell’odierno arcivescovado.
In epoca contemporanea ci sono poi le indagini di Paolo Orsi (1916), gli scritti di Guido Libertini e i lavori al manto stradale sotto la direzione di Carmelo Sciuto Patti, che necessariamente danneggiarono una trentina di sepolture ad inumazione.
Un ruolo a parte hanno poi i lavori eseguiti nel novecento riferibili in particolare a Raffaele e Giacomo Leone. L’impegno si concentrò sui “rifacimenti di danni bellici”, sul “restauro artistico-strutturale delle parti monumentali” e fu sorretto da un gruppo di lavoro in cui oltre a Giacomo Leone c’erano Stefano Bottari e Pietro Lojacono.
Non seguiremo puntualmente tutta la descrizione che ne fa l’Autore ma certo è interessante seguire lo sviluppo di indagini che progressivamente mostrano tutti gli aspetti di questo edificio, così centrale nella storia cittadina. Gli anni cinquanta e novanta segnano un salto in avanti nell’analisi del monumento e le evidenze archeologiche e le testimonianze dei documenti collimano nell’indicare il ruolo di Angerio nella fondazione (ed in merito si cita il testamento dell’abate-vescovo) dell’edificio, che è pensato appunto come ecclesia munita nello stile benedettino-cluniacense in versione francese. In conclusione il lavoro dopo aver rilevato le relazioni intellettuali, artistiche e stilistiche fra l’edificio costruito a Catania e la tradizione cluniacense europea offre anche i rilievi e le piante, foto e tavole comparative che aiutano il lettore a comprendere fino in fondo il significato della costruzione dell’opera.
I rilievi provano l’indipendenza architettonica della Sicilia dalla Calabria come la sintesi di apporti islamici e normanni alla sua costruzione. Non deve stupire l’apporto islamico, non solo perché largamente provato ma perché la presenza di artigiani, artisti, ingegneri arabi è evidente anche per molte altre costruzioni. Peraltro, già nel 1938 L.T. White affermava che il complesso abbaziale di Catania era l’unico per il quale fosse lecito parlare di un reale nesso con la tradizione nordica.
Quanto poi alla duplice committenza politica ed ecclesiastica che si sintetizza nella persona di Angerio non si sarebbe potuto trovare una immagine più felice per descrivere il ruolo del vescovo-conte Angerio. Quest’ultimo tutela le terre conquistate, le amministra, le cristianizza e le controlla. In altri termini la cattedrale, a partire dal suo cantiere è e vuol essere “perno del nuovo establishment politico e amministrativo normanno” (p.319). In questo contesto occorre valutare anche il vasto reimpiego di “spolia” classiche: la committenza normanna provò a ricostruire l’identità perduta ed a affermarla in questo solenne e sontuoso edificio insieme simbolo del nuovo potere e delle sue antiche radici, affermazione del nuovo dominio e centro propulsore della sua espansione.
In sostanza, il lavoro di Bella è un lavoro serio e profondo, ricchissimo di materiali, che apre scorci nuovi sulla storia travagliata della nostra Città, un grande ausilio, prezioso per gli storici, per la ricerca e la comprensione del nostro passato.
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Interessantissimo. Grazie a Marina Mangiameli (... e a Tancredi Bella)
Complimenti, Marina. Continui ad essere bravissima e ci fai appassionare ancora di più alla nostra Catania.