Perchè per la maggior parte di noi Cesare Terranova è solo un nome, menzionato nella sequenza degli omicidi eccellenti degli anni Sessanta/Settanta? Mancano forse i materiali per un ‘racconto’ completo che colmi questo vuoto? Se lo chiede Luca Gulisano in occasione della presentazione del suo libro, “Cesare Terranova giudice onorevole” (Mesogea editore, prefazione di Adriana Laudani), avvenuta a Palermo, lo scorso ottobre. In realtà c’era tutto e tanto. Andava fatta, però, un’operazione di messa a sistema dei tanti elementi sparsi, documentari, interviste, discorsi, libri, documenti di archivio, interventi parlamentari, sentenze di rinvio a giudizio che andavano non solo scoperti ma “fatti parlare”.
Il perché di tanto silenzio va rintracciato, però, anche nel fatto che spesso si evita di ricordare che dietro le vittorie ci sono talora anche le sconfitte. Questo libro infatti non parla di un eroe, parla di un uomo che ha fatto il proprio dovere e che, pur essendo all’altezza del proprio compito, è andato incontro a delle sconfitte.
Tra tutte, la sentenza di assoluzione nel maxi processo di Bari nel 1969 contro la cosca di Corleone capitanata da Luciano Liggio: 64 assoluzioni e Riina condannato solo per il furto di una patente. Assoluzioni che, dice Gulisano, sono figlie del contesto storico di quegli anni, anni in cui nessuno parlava di mafia e, se lo faceva, veniva censurato, come accadde a Dario Fo e Franca Rame che, in occasione di Canzonissima 1962, avevano osato sbeffeggiare con uno sketch il costume mafioso siciliano.
E’ in questo contesto che Terranova arriva al tribunale di Palermo, nel 1959, e comincia ad operare con un approccio investigativo moderno cogliendo la natura associativa dei reati di mafia, il muro di impenetrabile silenzio su cui i mafiosi contavano, la tendenza dei vari gruppi criminali a guerreggiare tra loro. Conflitti armati come quelli avvenuti nel palermitano, tra il 1962 e il 1963, tra le famiglie dei Greco e dei La Barbera, culminati nella strage di Ciaculli del 30 giugno 1963, la prima strage che, provocando la morte di ben sette rappresentanti delle forze dell’ordine, colpì le istituzioni in Sicilia.
Ma Terranova colse anche le relazioni tra mafiosi, imprenditori, amministratori e uomini politici. In una intervista rilasciata, il 19 maggio 1971 all’Unità, sull’onda dell’indignazione del delitto Scaglione, Terranova disse che l’isolamento dei boss certamente non bastava per combattere la mafia: “E’ in alto che bisogna colpire. Io potevo soltanto mettere in luce i buoni rapporti tra La Barbera e Lima … Non potevo espellere l’on. Lima dalla Democrazia Cristiana. Non è mio compito, spetta ad altri”. Così ad avercela con il giudice non saranno solo i mafiosi ma anche tanti politici. “Ciò che contraddistingue il mafioso dal delinquente comune, continua Terranova nell’intervista, è l’aggancio costante che il boss ha con i centri dl potere politico e amministrativo”. Un solido discorso sulla mafia non poteva, quindi, fermarsi alla mera repressione giudiziaria, che poteva arrivare solo alla dimensione criminale e militare del fenomeno.
La scelta di presentarsi alle elezioni politiche del maggio 1972 come indipendente di sinistra nelle liste del PCI, pur travagliata e sofferta, fu supportata dal ragionamento che “andrei a fare il mio lavoro da un altro punto di vista e a me questo interessa moltissimo”. Lo raccontava la moglie Giovanna. Terranova avrebbe, inoltre, lavorato nella Commissione Antimafia e nella Commissione Giustizia. Forse la spinta maggiore venne, però, dallo schianto di un DC-8 dell’Alitalia contro la Montagna Longa, la cima impervia che minacciava i voli in arrivo all’aeroporto di Punta Raisi. Nello schianto aveva perso la vita sua cognata e Terranova ebbe chiaro, in quel momento, che doveva andare a Roma per sua cognata e per tutte le altre vittime, per provare ad evitare che potessero accadere in futuro altri disastri come quello.
A Roma, il lavoro nella Commissione Antimafia fu l’esperienza più significativa, ma anche la più deludente: non vide mai discusse in parlamento le proposte della Commissione e questa delusione lo portò a non ricandidarsi più alle elezioni politiche del giugno 1979.
Tuttavia non si arrese: le proposte presentate in Commissione dovevano tradursi in legge e c’era una persona in grado di aiutarlo in questo, il deputato comunista Pio La Torre. Così riprese la sua attività giudiziaria il 17 settembre del 1979. Fece richiesta al CSM per la dirigenza dell’Ufficio Istruzione di Palermo con il rinnovato proposito di un maggior impegno nella lotta contro la mafia, coerente con l’insegnamento del padre secondo cui il modo migliore di fare una cosa era “farla Bene”. Sapeva di essere nel mirino della mafia e sapeva altresì di essere più temuto, come magistrato, dopo le conoscenze acquisite nel corso dell’attività svolta in Commissione Antimafia.
Il 25 settembre 1979 alle 8,30 il giudice Terranova e il suo amico fraterno Lenin Mancuso vennero barbaramente uccisi in via Rutelli a Palermo. Mancuso, erroneamente definito come la “scorta”, era un agente di polizia che aiutava il giudice nelle indagini e conosceva bene la città. Vennero uccisi entrambi perché il maresciallo condivideva con il magistrato tutto il lavoro e, se fosse rimasto in vita, avrebbe continuato le indagini. Chi erano i mandanti? La storiella che ad uccidere il giudice e il poliziotto fosse stata la gang di Luciano Liggio Pio La Torre non voleva assolutamente sentirla, anche perché ricordava che più volte con Terranova aveva discusso della convergenza tra mafia e terrorismo.
Nel libro l’autore, con ricchezza di documenti, propone una interpretazione politica del delitto Terranova – Mancuso, come del resto dei successivi delitti di Piersanti Mattarella, Boris Giuliano, Gaetano Costa, Pio LaTorre, Carlo Alberto Dalla Chiesa. La vera e propria decapitazione istituzionale avvenuta a Palermo sul finire degli anni settanta aveva come obiettivo quello di destabilizzare lo sviluppo democratico del paese.
Una tesi forte che l’autore sostiene con dovizia di riferimenti, vestendo i panni dello storico archivista o del ‘topo di biblioteca’, come lui stesso si definisce, ma anche alleggerendo il tono della narrazione con il ricorso ad interviste “immaginarie” fatte ad alcune donne, come Serafina Battaglia, la prima donna che ruppe dall’interno l’omertà mafiosa o la fotografa Letizia Battaglia, messa in scena con il suo linguaggio colorito e spregiudicato. Emerge così il ruolo attivo che tante donne ebbero nel determinare una rottura storica e culturale di notevole significato.