Sul tema complesso e controverso del ‘reddito di cittadinanza’, introdotto nel 2019 dal governo giallo-verde e abolito recentemente dal governo Meloni, vorremmo aprire un dibattito. Lo facciamo pubblicando un testo inviatoci da Davide Cadili, trentenne fondatore del movimento Disoccupazione Zero e invitiamo tutti i nostri lettori a partecipare a questa occasione di confronto e di riflessione. Sull’argomento Argo ha già pubblicato il contenuto di un’intervista alla sociologa Chiara Saraceno e la testimonianza di un giovane ricercatore.
Dal dicembre scorso ho iniziato a seguire i percettori di Reddito di Cittadinanza, aiutandoli a organizzare le proteste in città. Nel corso delle molte iniziative e durante le azioni di volantinaggio sono rimasto sorpreso dall’atteggiamento negativo e dalle perplessità che questa legge ha suscitato in tanti cittadini. Fin quasi a generare sentimenti di odio.
La Sicilia da sola rappresenta il 20% dei percettori totali, migliaia e migliaia di nuclei familiari che, durante il Covid e fino a oggi, hanno vissuto grazie a questa ridistribuzione della ricchezza. Una media di 530 euro a nucleo, che ha permesso non solo di arrivare alla fine del mese, ma di far passare perfino qualche piccolo capriccio a chi era abituato a vivere con pochissimo.
L’immobilità di partiti e associazioni nella difesa di questa misura, unico freno al tracollo sociale di un meridione con tassi di disoccupazione superiori ai paesi del nord Africa, è stata all’inizio difficile da comprendere per me. Ho provato a spiegarmela con motivazioni pratiche: le difficoltà a trovare e radunare i percettori, l’essersi disabituati a organizzare proteste per strada, la mancanza di risorse umane nelle singole ‘amene’ realtà aggregative della città.
Successivamente però, cercando di coinvolgere e sensibilizzare le persone sul tema, un’altra risposta è apparsa chiara ai miei occhi: quasi chiunque non percepiva il Reddito, era contro il Reddito.
Se per alcuni è stata un’ancora di salvezza, per moltissimi è stata una legge fallimentare, odiosa e antipatica. Non erano critici solo l’uomo di destra antropologicamente contrario al welfare state, o l’imprenditore che utilizza sistematicamente la disoccupazione per mantenere bassi diritti e salari dei lavoratori. Erano critici anche il cameriere sfruttato che per qualche motivo non era riuscito ad accedere alla misura, l’impiegato del comune con il figlio emigrato per assenza di lavoro e lo studente fuori sede che vede con preoccupazione il futuro malgrado gli anni di sacrifici spesi per ottenere la laurea.
Nel corso di un volantinaggio al Villaggio Sant’Agata, abbiamo lasciato dei volantini nelle cassette della posta di un grande palazzo popolare dove un anziano signore lavava le scale. L’uomo, sulla settantina, appena ha saputo quale fosse l’argomento della nostra manifestazione, ci ha rimproverato in maniera colorita, facendo riferimento alla mitica mancanza di voglia di lavorare da parte dei giovani. Non dava importanza al fatto che si ritrovasse con una pensione troppo bassa per vivere, e fosse costretto a lavare le scale di un condominio per pochi euro e senza un regolare contratto. Il nemico era il povero come lui, un povero che però aveva avuto accesso ad una ridistrubuzione da cui lui era stato estromesso.
Ho incontrato anche uno dei famosi navigator. Ora è a rischio pure il suo contratto, elenca i giusti motivi per cui dovrebbe essere stabilizzato: lo Stato ha speso soldi per formarlo, nei centri per l’impiego manca personale giovane e in grado di usare le tecnologie informatiche, i disoccupati hanno necessità di qualcuno che si dedichi alla loro situazione. Chiedo se vuole unirsi alle nostre manifestazioni insieme ai percettori, ma non può. Tutti i navigator sono in contrattazione con il Ministero: stringere solidarietà con i percettori potrebbe inimicargli le istituzioni che devono decidere sul rinnovo. Devono difendere il loro lavoro, e non possono trovare il tempo e la volontà di difendere una manovra che forse non è nemmeno nelle loro corde, malgrado sia proprio da essa che nasce il loro ruolo.
A giugno arrivano delle richieste di rimborso in tutta Italia per quei ragazzi che hanno percepito indebitamente il Reddito di Cittadinanza. Il loro errore, e quello dei Caf a cui si erano affidati, è stato quello di considerare sufficiente avere una residenza diversa da quella del nucleo familiare mentre sarebbe stato necessario anche, prima dei 26 anni, avere dichiarato una entrata di almeno 4mila euro. La situazione paradossale è che, finché sei totalmente povero, non puoi accedere al Reddito di cittadinanza perché sei troppo giovane. Il richiedente deve avere un passato di sfruttamento come lavoratore stagionale, ed avere, per esempio, trovato qualcuno che l’abbia messo in regola per almeno 4mila euro. Solo così potrà rientrare nell’agognata sfera dei poveri.
Chiedo a un sindacalista se vuole aiutare questi ragazzi dal punto di vista legale, anche per solidarietà, poiché le richieste di restituzione risultano di varie migliaia di euro. La risposta è negativa, la legge purtroppo è così e loro hanno sbagliato. Non importa se si pensa che la legge sia ingiusta, il sindacato, il partito o qualsiasi altra istituzione non può fare nulla. Quei ragazzi si sono messi dalla parte del torto, anche se inconsapevolmente.
Così comprendo pienamente perché il Reddito crei tanta indisposizione, perché è la prima legge in Italia che, per alcune migliaia di persone, ha modificato il sistema. La sua applicazione, slegata per vari motivi dall’inserimento nel mercato del lavoro, ha reso libere con poche centinaia di euro le persone che ne erano beneficiarie. In una società italiana rassegnata da lungo tempo all’impossibilità di cambiare il sistema, il Reddito è suonato come una preoccupante campana dal suono nuovo.
Perché dare soldi a chi resta sul divano? Perché dare soldi a chi non ha nessun ruolo nella società? Perché dare soldi a chi si accontenta di vivere con poco, e non desidera niente di più di quel che ha?
L’applicazione del Reddito di cittadinanza al sud, per chi l’ha ricevuto, è apparso come una premessa del Reddito universale, cioé ricevere quanto basta per vivere dignitosamente solo perché si è membri di una comunità.
Non è stata elemonisa, cosa permessa dal sistema perché saltuaria nella elargizione e minima nella somma. Non è stato un percorso formativo pagato, pronto a sfornare i lavoratori del domani per le aziende. Non è stato uno scambio di voto tra il partito politico che l’ha approvata e i cittadini che vengono semplicemente comprati. Il Reddito non è una pensione d’invalidità elargita con sotterfugio tramite Caf o medici compiacenti, non è un posto dato, in Comune, al capofamiglia che ha portato alcune decine di voti al Consigliere locale, e non è nemmeno un favore.
Il Reddito è un diritto, un diritto nuovo e osteggiato fin dal primo momento perché primo piccolo esempio che le cose impossibili in realtà sono possibili. I media e alcuni ambienti culturali hanno fatto di tutto per far vergognare chi lo riceveva, come se ci si dovesse vergognare di esercitare un proprio diritto.
Questo piccolo schiaffo di una parte del meridione al modo di vivere della società italiana nel suo complesso poteva essere molto più forte se alcune cose fossero state diverse alla fonte. Cosa sarebbe accaduto se, come era previsto nel 2013, il Reddito fosse arrivato a una platea ancora più ampia? Se invece di una spesa di appena 8 miliardi, fosse stata di 15 come era preventivato? Se invece di delegare ai Caf, le pratiche fossero state integralmente gestite dallo Stato?
La storia non si fa con i se, ma di sicuro il Reddito, cancellato o meno, è entrato nella storia per l’importanza con cui modificherà il nostro modo di vedere le cose.
Voglio terminare citando il cupo paradosso contenuto nella affermazione di un vigilante, incontrato in un Penny Market durante un nostro volantinaggio: “Se tolgono il Reddito, io dovrò licenziarmi. Per mille euro non mi va di rischiare una coltellata, perché è ovvio che si tornerà a rubare dentro il supermercato. Ma se mi licenzio, non posso neanche sperare nel Reddito di Cittadinanza, perché non ci sarà più. Sono proprio sfortunato”.
Cambiare il sistema, modificare il sistema….
Ancora si vuole considerare il reddito di cittadinanza come qualcosa di rivoluzionario; perché è nuovo? No invece, è qualcosa di vecchio, molto vecchio, è la continuazione, l’allargamento di quel pernicioso assistenzialismo all’italiana che prima o poi ci chiederà il conto, è sarà un conto salato.
A chi è andato, a chi va il reddito di cittadinanza. Forse a qualcuno realmente bisognoso è andato, ma la maggior parte dei fruitori che conosco hanno un altro reddito, in nero, ma hanno un altro reddito.
Poi è a tempo quando invece si sta trasformando in un provvedimento a vita.
Poi richiede una qualificazione e l’offerta di un lavoro e non si è capaci di dare né l’una né l’altra.
Sono contrario al reddito di cittadinanza così come è disciplinato, sono contrario alle difese d’ufficio ipocrite volte a mantenerlo così come è oggi.
Se chi percepisce il reddito di cittadinanza non fosse solo tenuto a dare una disponibilità di almeno 8 ore settimanali per progetti utili alla collettività nel Comune di residenza, ma fosse vincolato ad un reale impegno giornaliero di formazione o per lavori di pubblica utilità, ritengo che ci sarebbe meno atteggiamento negativo nei confronti dei percettori, perché tutti vedremmo il beneficio di avere spiagge e verde pubblico pulito, edifici pubblici rinnovati e si vedrebbe ridotto il numero dei percettori a coloro che non svolgono contemporaneamente lavoro nero sia alle dipendenze di terzi che di tipo autonomo.
Mi piacerebbe sapere quanti dei percettori di reddito sono stati effettivamente impegnati in corsi di formazione orientati al lavoro o in progetti utili alla collettività nel comune di residenza e con quali risultati.
Così come vorrei sapere i risultati del lavoro svolto dai navigator, oggi alla ricerca di una stabilizzazione, in ragione di un progetto che non mi pare abbia prodotto risultati significativi.
Riuscire a rendersi autonomo dalla famiglia di origine è una aspirazione legittima di molti giovani, ma poterlo fare senza mai aver lavorato prima e solo grazie al reddito di cittadinanza mi sembra non condivisibile. Se invece questi giovani hanno lavorato in nero, potranno innanzitutto avviare una procedura giudiziaria volta al riconoscimento del lavoro svolto irregolarmente e poi potranno usufruire del reddito di cittadinanza.
Quanto ai CAF, siamo certi che chi si è “affidato” a questi Centri non sia stato contemporaneamente avvisato della criticità della istanza che si stava producendo?
Apprezzo, infine, la coerenza del sindacalista che non si cimenta in una azione che è contraria alle leggi. Non ha senso avviare un ricorso se non vi sono le condizioni legali che potrebbero produrre un risultato positivo. Se si è contrari alla norma la questione diventa politica e si promuove in Parlamento.
egr. direttore , leggo sul suo giornale una notizia che ritengo sconvolgente circa l’intervento effettuato dal noto stilista Dolce ,originario del paesino di Polizzi Generosa , sulla riprovevole abitudine dei giovani siciliani di impiegare il loro tempo sui Social piuttosto che lavorare. Addirittura il nostro geniale stilista si abbandona ad uno sfogo antico e dice : giovani, lavorate , ritrovate la dignità. Lo segue , intimidito l’Assessore regionale alla Formazione professionale ed all’Istruzione dr. Turano , invitando il genio imprenditoriale siculo ad incontrare i giovani per rinnovare l’invito al lavoro . La notizia , publicata a pag, 2 del suo giornale, mi sorprende ed indigna perchè la mancata conoscenza dello stilista Dolce può essere comprensibile , ma che l’assessore regionale alla formazione ignori quanto le sto per scrivere , ritengo sia gravissimo. Ebbene ,nell’ambito del nostro territorio ( Catania in particolare) un’azienda di notevoli dimensioni , assume operai per lavori pesanti e quindi giovani forzuti e capaci; afferma sulla carta di applicare il contratto collettivo dei metalmeccanici ; impegna i lavoratori assunti per ben VENTISEI GIORNATE LAVORATIVE ma di queste giornate ne paga solo VENTUNO.Questa nota impresa ha il coraggio di redigere due tipi di buste paga: una viene firmata dal lavoratore con sigle e numeri quasi illeggibili mentre la busta paga da sottomettere alla verifica dell’INPS enumera solo 21 giornate di lavoro effettivo . 5 giorni al mese ( puntualmente) vengono annotate come AI cioè assenze ingiustificate e quindi non retribuite. Le 5 giornate sicule , lavorate ma non pagate, sono una regola . Lo dimostra l’orologio marca tempo che viene punzonato dai lavoratori ma poichè non obbligatorio , il giudice ne disconosce il contenuto. A questo punto, la regalia che l’impresa pretende da chi lavora e si rompe la schiena , come dev’essere definita? Pizzo o delizioso omaggio per essere stati Gabbati ripetutamente da chi ruba il lavoro? I lavoratori di cui sopra non conoscono i social .In caso di contestazione giudiziaria , la magistratura ,non legge le buste paga fasulle e ignora i cartellini marca tempo perchè pur provenendo dall’interno dell’azienda non sono obbligatori.La Cassazione predica e insegna. Chi è chiamato a giudicare mostra una ingenuità da favola . Pretende che le Assenze ingiustificate, costanti e periodiche , vengano coperte da testimonianze provenienti da lavoratori non amici dei social.Le buste false e non firmate ed i cartellini marca tempo, lasciano il tempo che trovano.Questi percorsi di vita , ignorati colposamente o dolosamente dall’assessore regionale, connotano le giornate Dolci e Gabbate , dei lavoratori siculo-catanesi. Non temo le denunce ed ho anche le prove documentali. avv. Lina Arena
Un’analisi molto approfondita, quella del giovane ricercatore. chissà se arrivra a Roma.