Se una persona giovane che non ha un lavoro e passa buona parte della giornata in un luogo non particolarmente ospitale, senza trovare un senso alle sue giornate non è difficile che finisca con lo sviluppare una dipendenza da una delle tante sostanze, legali e non, facilmente reperibili sul mercato.
In questo caso, può essere che vienga presa in carico da un Ser.D. (Servizio pubblico per le dipendenze) dove trova risposte farmacologiche e, quasi sempre, anche psicologiche. Ma, dovendo tornare sempre nello stesso luogo nelle stesse condizioni come potrà uscire dalla dipendenza?
A questa domanda, proposta da un rappresentante della comunità gambiana di Catania hanno provato a rispondere Ernesto de Bernardis (Responsabile Ser.D ASP SR) e Pino Fusari (Responsabile Comunità terapeutica Sentiero Speranza di Biancavilla).
Ne hanno discusso sabato 24 giugno nel corso di una tavola rotonda (a inviti) proposta da LHIVE Catania sul tema: Si può smettere di fare uso di sostanze?
L’incontro era rivolto ai rappresentanti delle comunità di persone straniere presenti in Città (erano presenti Gambia, Bangladesh, Afghanistan, Pakistan, Senegal) e ad alcuni operatori sociali che lavorano in strada. Com l’obiettivo di mettere insieme servizio pubblico, terzo settore e volontariato per ragionare insieme, come ha precisato, nella sua introduzione, Luciano Nigro (Infettivologo, presidente LHIVE), su strategie credibili per affrontare il tema delle dipendenze che colpisce sempre più i soggetti più marginali e vulnerabili delle comunità straniere.
Ma torniamo alla domanda iniziale. Secondo de Bernardis, dei tre pilastri che dovrebbero caratterizzare l’intervento sulle dipendenze: medico/farmacologico, psicologico e sociale, è evidente che le strutture pubbliche non riescono a incidere sul contesto sociale. Non hanno, infatti, strumenti e risorse adeguati per evitare che la persona dipendente rientri a pieno titolo in quel contesto che ha contribuito a determinarne la dipendenza.
Anche perché se è vero che ogni dipendenza è il prodotto di un percorso specifico e individuale, come ha affermato Fusari, bisogna considerare che i Ser.D hanno visto crescere progressivamente il loro mandato di intervento. Le problematiche su cui intervenire negli anni hanno incluso il gioco d’azzardo, i problemi alimentari, la dipendenza da nicotina, l’alcolismo, internet ecc. Tutto ciò a fronte di un personale che copre effettivamente solo il 60% dei posti in organico. E considerando che, inoltre, parte dei finanziamenti pubblici che potrebbero contribuire ad affrontare questa situazione finiscono per disperdersi in mille rivoli. Manca, infatti, fra gli stessi operatori pubblici, una rete in grado di connettere fra loro i vari progetti.
In attesa che le cose cambino, i rappresentanti delle Comunità hanno ribadito l’urgenza del ‘che fare’, della necessità di individuare, nell’immediato, il ‘come’ interagire con le persone dipendenti, il ‘cosa’ proporre concretamente.
Fusari ha indicato, come primo passo, quello della formazione sia di coloro che vivono all’interno delle Comunità sia degli operatori che operano su strada, i quali possono garantire innanzitutto il momento dell’ascolto. Una proposta che trovato d’accordo gli operatori LHIVE che in più occasioni sono riusciti a fare da tramite con i Ser.D. in modo che fosse garantita la presa in carico dei singoli soggetti.
Concetto ribadito da Nigro che ha sottolineato come un buon intervento deve sempre puntare su una corretta relazione pubblico-privato, dove il primo è in grado di garantire la continuità degli interventi e il secondo di sperimentare pratiche innovative che, se positive, potranno essere fatte proprie dai soggetti istituzionali. In questa prospettiva la formazione continua deve essere uno strumento fondamentale, a disposizione degli operatori del servizio pubblico e del privato sociale.
Altra proposta, avanzata sempre dagli operatori LHIVE, che hanno anche sottolineato la differenza fra uso, abuso e uso problematico delle sostanze, è stata quella di riprendere le politiche di “Riduzione del danno”, ovvero quegli interventi che si pongono l’obiettivo di far sì che il singolo soggetto, pur non rinunciando all’uso della sostanza, usi tutte le precauzioni possibili per ridurne gli effetti negativi. Nel passato queste politiche si erano concretizzate nelle Unità di Strada che, formate spesso anche da operatori alla pari, permettevano alle persone dipendenti di avere “una pausa”, condividere mezzi di conforto, essere accolte, ricevere informazioni e materiali utili e, se lo volevano, di essere indirizzate/accompagnate ai servizi pubblici. Una pratica che, oggi più di ieri, andrebbe riproposta.
In conclusione, una prima tappa positiva per riprendere “organicamente” il confronto fra pubblico e privato. Due gli impegni condivisi e assunti: realizzare momenti comuni di formazione, lavorare per costruire una rete più ampia, capace di coinvolgere un numero di soggetti più vasto, anche per indirizzare meglio le non molte risorse disponibili.
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Mi pare ancora tutto in alto mare.
Ma perché si dice che non ci sono risorse?
Il famoso pnrr non dice nulla in proposito?
Penso si dovrebbe cercare di programmare anche in piccolo e in modo molto concreto qualche intervento , che poi, se positivo, si possa ampliare e/o mettere in rete.