La storia di una monacazione forzata, a cui la protagonista non si rassegna, decisa a combattere contro tutto e tutti per rivendicare il diritto alla felicità. Ce ne parla, con gli occhi della storica, ma soprattutto con il suo sguardo di donna, Marina Mangiameli, collaboratrice di Argo.
Nella sontuosa Palermo del Seicento, fra riti sociali e speranze vane, si dipana una storia avvincente e drammaticamente silenziosa. Si tratta della vicenda di Anna Valdina, donna di nobilissima famiglia che, fin da bambina, viene rinchiusa in convento con la scusa di esservi educata. Lentamente la protagonista scopre, con orrore, che il ristretto orizzonte del monastero è tutto quello che la vita ha in serbo per lei.
Niente balli, niente feste, niente amori o matrimoni, solo la prospettiva, dovuta al suo rango, di diventare badessa. La cosa sorprendente è che non solo la giovane non si rassegna al suo destino, non solo, insensibile ai molti fallimenti, lotta per tutta la vita per uscire dal monastero, ma riesce, infine, ad ottenere giustizia ed uscire dalla clausura.
L’interesse particolare del testo nasce dal fatto che la vicenda è descritta a partire da carte di archivio, è storica, anche se l’autrice (Pina Mandolfo, Lo scandalo della felicità, Vanda Edizioni 2023) ha fatto appello alla fantasia per le parti di cui non esistevano testimonianze, una fantasia però sempre fondata su solide basi documentarie.
La vicenda offre non solo una prospettiva nuova sulla condizione femminile nel diciassettesimo secolo ma ci offre uno sguardo che va in profondità sulla società e sulla mentalità dominante in cui una donna, per quanto nobile e ricca, non ha diritto ad una propria dimensione esistenziale, più in generale non ha diritti di sorta, non ha né ruolo sociale né speranze, può e deve solo obbedire anche agli ordini anche i più disumani e crudeli che la famiglia le impone, e la sua stessa esistenza, e persino il suo destino, è strettamente legato alla famiglia al suo prestigio, alle sue esigenze, alla sua politica, in questo contesto lei non ha altro valore che aderire a quello che il padre ha deciso per lei, contribuendo così a realizzare il potere del suo “genos” solo in virtù del quale ha senso la sua vita.
Il ricchissimo principe padre, don Andrea Valdina della Rocca, infatti, non avrebbe necessità di fare monacare le sue figlie femmine, ma deve mantenere intatto il patrimonio familiare per il figlio maschio, destinato a succedergli nel ruolo e negli onori. E lo stesso figlio è talmente convinto che sia giusto e naturale che la sua vita e la sua fortuna, la sua successione si compia felicemente anche sulla disperazione delle sue sorelle che, rinnegando l’affetto e la complicità che, nell’infanzia, lo aveva unito ad Anna, ignora le sue richieste di aiuto. Quando lei, essendo morto il crudele padre, ne cerca l’aiuto e la solidarietà, per tutta risposta ammantando di irritazione il sottile velo di ipocrisia il fratello le ingiunge di non seccarlo. Non meno feroce e doloroso per la protagonista il silenzio della madre. La sofferenza della giovane viene interpretata come “fisima” femminile ed anche quelli che si rendono conto della enorme ingiustizia che è stata commessa, con l’inganno, ai danni delle sorelle Valdina, tacciono.
Il lettore assiste con crescente stupore allo spettacolo dell’indifferenza sociale alla silenziosa tragedia, ben nota a tutti, che si sta svolgendo fra le mura del monastero e che diventa via via più drammatica man mano che le illusioni e le speranze della giovane rivelandosi infondate, cadono una dopo l’altra. Ciononostante la protagonista continua nel suo indefesso tentativo di sfuggire alla sua sorte, di trovare qualcuno che ascolti le sue ragioni. Fra l’altro così si scopre che anche all’epoca esistevano delle leggi per tutelare la libertà di una scelta così irreversibile ma era la sanzione sociale a rendere quasi impossibile che esse fossero applicate e che avessero una effettiva utilità.
Per cui Anna diventa sempre più sola, sempre più disperata. Ma questo non la induce alla rassegnazione. Continua a cercare, a tentare. Si rivolge alla famiglia, alla Chiesa, allo Stato, agli amici ma apparentemente nulla cambia e trova solo la solidarietà della sua serva.
La felicità è preclusa ad Anna come a molte altre donne del suo tempo e, volendo, anche del nostro. La vicenda è però istruttiva e, spesso, appassionante, per non dire che è una preziosa occasione di riflessione per valutare quanto è stato fatto ma soprattutto quanto resta da fare anche nella nostra becera contemporaneità in cui troppo spesso sembra che la “libertà” femminile coincida solo con l’uso di un capo di abbigliamento o di una vettura.
Grazie per queste belle parole e questa analisi sapiente, Pina Mandolfo