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Ex Jugoslavia, il separatismo regionale e la guerra della Nato

Ricorre oggi il 24anniversario dell’attacco NATO alla Serbia, una guerra non autorizzata dall’ONU, ma presentata come umanitaria e necessaria. Alessandra Sinatra, docente di storia e filosofia, ne ricorda i momenti più significativi, traendone riflessioni che riguardano anche il nostro presente

Il 24 Marzo del 1999, nonostante non ci fosse un’autorizzazione da parte dell’ONU né motivi di autodifesa, la NATO decise di sferrare il suo attacco contro la Serbia presentandolo come un intervento a difesa dei diritti umani contro la barbarie. La propaganda fu efficacissima e solo poche furono le voci che si staccarono dal coro.

Che si fosse violato il diritto internazionale lo ha ammesso nel 2014 anche il cancelliere tedesco Schroder: “Insieme alla NATO abbiamo bombardato uno Stato sovrano, senza che il Consiglio di sicurezza avesse preso una decisione a riguardo”. Un precedente estremamente pericoloso che mette l’Occidente tutto in una situazione poco difendibile quando in altre occasioni si fa appello proprio a quel diritto che esso stesso ha violato.

Quando si parla di ex Jugoslavia, i discorsi si complicano e molti osservatori considerano la crisi jugoslava come il tipico caso di conflitto nato da ragioni di rivalità etnica e da incomprimibili spinte all’autodeterminazione, come – tra gli altri – sostiene Ettore Greco vice presidente dello IAI, Istituto per gli affari Internazionali.

Altri, invece la considerano come una deliberata e ingiustificata aggressione perpetrata dagli USA al fine di affermare la loro egemonia sul mondo. Tra questi, Daniel Ganser, storico e ricercatore svizzero specializzato in storia contemporanea e politica internazionale che, nel suo libro “Le guerre illegali della Nato” (2022, Fazi Editore), dedica un capitolo alla guerra contro la Serbia in cui, riportando dati e testimonianze, racconta con dovizia di particolari gli esordi del conflitto e le responsabilità che gli Stati Uniti e altri governi europei hanno avuto nella tragica vicenda.

Avvincente il modo con il quale l’autore ricostruisce come, poco per volta, gli Stati Uniti siano riusciti ad approfittare delle tensioni esistenti per scatenare sempre di più le violenze, coprire le illegalità proprie e di una delle parti in conflitto, per mettere in risalto solo le colpe dei Serbi e apparire agli occhi dell’opinione pubblica come una forza di pace.

La visita di Mitterand a Sarajevo del 28 Giugno 1992 fu una data importante perché, come sfuggì a molti ma non allo storico Hobsbawm, era l’anniversario dell’assassinio dell’arciduca d’Austria Francesco Ferdinando nel 1914, la scintilla che condusse l’Europa alla prima guerra mondiale, “una catastrofe storica innescata da errori di valutazione politica. Scegliere una data così simbolica era il modo più efficace per drammatizzare le possibili implicazioni della crisi bosniaca. Ma quasi nessuno colse l’allusione… La memoria storica non era più viva.” ( Hobsbawm, Il secolo breve)

“ La polveriera dei Balcani” ancora una volta come alla fine del XIX secolo…

E Ganser spiega come gli Stati Uniti abbiano dato fuoco a quelle polveri favorendo le guerre che negli anni ’90 hanno decretato lo smembramento della Jugoslavia nelle repubbliche indipendenti: Slovenia, Serbia, Croazia, Macedonia, Bosnia, Montenegro, oltre alla strana situazione del Kosovo (dichiaratosi unilateralmente indipendente) rivendicato dalla Serbia e sotto il protettorato delle Nazioni Unite. E aizzando le rivalità già presenti, per ragioni etniche religiose ed economiche (Cristiani ortodossi in Serbia, cattolici in Croazia, musulmani in Bosnia), fra le repubbliche federate che erano state ben controllate fino almeno alla morte di Tito (1980).

Con la scomparsa di Tito e il crollo dell’Unione Sovietica si era modificato pesantemente il quadro generale e in questa situazione già delicata si inserirono gli interessi degli Stati Uniti (ma anche della Germania e di altri Paesi) e il loro tentativo di sfruttare i motivi di dissenso e di accentuare le rivalità tra le popolazioni del territorio.

In che modo? Ganser lo racconta anche riportando le parole di un ex agente della CIA Robert Baer, “uno di quegli americani – scrive Ganser – che hanno girato il mondo e sanno per esperienza personale che cos’è la politica di potenza e come funziona”. Secondo Baer, “gli USA hanno destabilizzato di proposito la Jugoslavia smembrandola in vari staterelli e aizzando tra di loro i vari gruppi entici….. Lo scopo della propaganda era quello di scindere tra loro le repubbliche federali della ex Jugoslavia, affinché si staccassero dalla madrepatria e diventassero autonome”.

Un altro modo certamente efficace per esasperare gli animi e rendere la situazione particolarmente esplosiva fu il ricatto economico. Dopo i prestiti concessi, continua Ganser, “la nuova direttiva americana sottoponeva la Jugoslavia a una notevole pressione finanziaria”. Le somme erano enormi, il governo federale pensava che si trattasse di una cifra contenuta ma anche le singole repubbliche potevano ottenere prestiti grazie all’autonomia concessa con la Costituzione del 1974 e quindi risultò un debito spropositato che agevolò la discordia e il collasso del paese.

“Di fronte ai fondi di finanziamento che si andavano esaurendo, la Slovenia e la Croazia, ovvero le repubbliche più ricche, ne rivendicavano per sé una quota più alta poiché ritenevano che fossero le loro economie a generare più valore. Ma anche le altre repubbliche meno fortunate, cioè Bosnia-Erzegovina, Macedonia, Montenegro e Serbia, chiedevano più denaro data la difficile situazione economica, sostenendo che la perequazione finanziaria tra i vari paesi della ex Jugoslavia era importante proprio durante una crisi economica, al fine di garantire la coesione interna complessiva.”

Il risultato fu che nel 1991 Slovenia e Croazia si proclamarono indipendenti dalla Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia. La polveriera era esplosa. E se la guerra in Slovenia durò poco e fece pochi danni, “in Croazia la guerra divampò tra i cattolici e la minoranza ortodossa serba…l’odio interetnico stava aumentando.”

Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU decise nel Febbraio 1992 di inviare nei Balcani i Caschi blu per “proteggere la popolazione locale dal pericolo di attacchi armati”. Dopo la fine dei combattimenti in Slovenia, nel Luglio del 1991, e in Croazia nel Gennaio del 1992, la guerra si trasferì in Bosnia-Erzegovina dove si prolungò con catastrofiche conseguenze e una sanguinosa guerra tra bosniaci musulmani, i cosiddetti “bosgnacchi”, croati cattolici e serbi ortodossi.

Nel Maggio del 1995 la NATO abbandonò il principio della difesa per quello dell’attacco e “cominciò a bombardare le installazioni serbe nei dintorni di Sarajevo”, gli accordi di Dayton del Novembre del 1995 pongono fine alla guerra in Bosnia ma non in tutto il territorio. Nel mese di luglio si era intanto verificato il gravissimo episodio dell’attacco serbo a Srebrenica dove furono massacrati un numero imprecisato di musulmani bosniaci, una tragedia che rappresentò un duro colpo per la reputazione dell’ONU, che si era dimostrato incapace di impedirla, un ulteriore motivo per considerare secondario il suo ruolo.

Quando anche il Kosovo rivendicò l’indipendenza, gli americani sfruttarono le ostilità tra musulmani albanesi e serbi cristiani schierandosi a fianco dei primi. In Kosovo, gi Usa appoggiarono l’Esercito di liberazione (UCK), una denominazione che viene messa in dubbio da molti osservatori tra i quali John Crosland (ufficiale britannico addetto all’Ambasciata di Belgrado), secondo il quale l’UCK era “un’organizzazione terroristica e non un movimento di combattenti per la libertà”. “Isolare il Kosovo dalla Serbia è come se si volesse togliere il Galles dall’Inghilterra”, affermò.

Spacciando i combattenti morti come per massacri di civili, come accadde a Racak, e parlando di una crisi umanitaria di fronte alla quale non si poteva rimanere inerti, non fu difficile – per gli Usa – convincere governi e opinione pubblica della necessità di un’azione. A questo riguardo il generale tedesco Heinz Loquai che era sul posto tra gli osservatori dell’OSCE (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) affermò “Non c’era stata una crisi umanitaria prima che cominciassero le incursioni della NATO”.

Tante sono le questioni e le domande che la lettura di queste pagine fa sorgere ed è estremamente difficile orientarsi e farsi un’idea chiara quando le “verità” sono così diverse e contrastanti.

E se le spinte all’autonomia nell’Ottocento hanno portato alla indipendenza e alla libertà tanti paesi in nome del principio dell’autodeterminazione dei popoli, oggi queste spinte incutono ragionevoli timori e diffidenze. Le divisioni sulle quali le potenze straniere hanno potuto far leva nella Jugoslavia post Tito erano particolarmente significative e profonde, ma soffiare sulle diffidenze invece che sulla solidarietà e sulla forza della comunità è sempre un segnale estremamente pericoloso. La politica del divide et impera è sempre attuale ed efficace. Il pensiero corre anche all’Italia dove le recenti proposte di autonomia differenziata possono essere motivo per incrementare le diffidenze, le ostilità e la competitività malata tra le varie regioni, come dire, “balcanizzare” non è una strada che porti alla prosperità o al progresso.

Argo

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  • @Argo Poveri serbi che non possono nemmeno a commettere un genocidio per colpa della NATO cattiva.

  • povera NATO che deve sobbarcarsi tutti questi sacrifici in nome e per i principi di libertà occidentali, buoni per antonomasia.

  • Persino un giornale politicamente corretto e allineato all’ideologia neo liberale come The Economist
    Il 3 aprile del 1999 pubblica una copertina con l’eloquente titolo: Victim of Serbia- or NATO?

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