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Associazione Luca Coscioni, anche a Catania inizia il percorso sul fine vita

Se ne parla poco, eppure il fine vita è un argomento che ci riguarda tutti. Con questo termine ci si riferisce, infatti, non solo ad eutanasia e suicidio assistito ma anche al consenso informato, all’accanimento terapeutico, al testamento biologico. Un tema, quest’ultimo, sul quale si è recentemente svolto, a Paternò, un incontro pubblico organizzato dalla cellula catanese dell’Associazione Luca Coscioni di cui è coordinatrice la giovanissima Camilla Malatino.

Dal gennaio 2018 è in vigore la legge n. 2019, che “tutela il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona”. Oltre a porre il consenso libero e informato come condizione di ogni trattamento sanitario, prevede la possibiltà, per ognuno di noi, di dare delle “Disposioni Anticipate di Trattamento” (DAT), che comunemente indichiamo con il termine “testamento biologico”.

Le disposizioni, consegnate presso notai, Comuni o strutture sanitarie, vengono poi inserite in una apposita Banca dati nazionale, compresa la scelta di un fiduciario che sarà eventualmente chiamato a rappresentare l’interessato nelle relazioni con il medico e con le strutture sanitarie.

Ci sembra importante che su questo tema trascurato vengano riaccesi i riflettori. Su Argo, quasi due anni dopo l’approvazione della legge, abbiamo già documentato quanto fosse poco conosciuta ed utilizzata nella nostra città. E come, invece di diffonderne la conoscenza, pare quasi che l’amministrazione si adoperi a frapporre ostacoli e difficoltà pratiche che di fatto scoraggiano chi è intenzionato a formalizzare le proprie disposizioni.

Sarebbe opportuno, invece, non farsi sfuggire la possibilità di decidere su questioni delicate come la donazione degli organi, il rifiuto dell’accanimento terapeutico, o il consenso alla sedazione profonda, scelte che vanno fatte “quando si è in buona salute”.

Si tratta comunque di disposizioni modificabili e revocabili in ogni momento, come è stato ribadito dalla coordinatrice nel corso dell’incontro di sabato scorso, che ha rappresentato un primo appuntamento all’interno di un percorso che la cellula Coscioni intende fare in vista della presentazione di una proposta di legge di iniziativa popolare sull’accesso al suicidio assistito, per la quale partirà a breve anche la raccolta delle firme.

E verso il tema del suicidio assistito e dell’eutanasia legale si sono di fatto, progressivamente, spostati gli interventi dei relatori, a partire da quello dell’avvocato Patrizio Salerno, dell’associazione Luca Coscioni, che ha ricordato il clima di grande partecipazione della campagna referendaria per l’eutanasia legale del 2021, a cui molti cittadini hanno aderito con entusiasmo. Il referendum proponeva la parziale abrogazione dell’art 579 del codice penale in modo da depenalizzazione il reato definito, con una espressione non certo felice, “omicidio del consenziente”.

La partecipazione ampia e l’entusiamo furono poi vanificati dalla sentenza della Corte Costituzionale (50/2022) che, senza intervenire sul merito, negò la possibilità di modifica della legge mediante la procedura referendaria e rimise la decisione nelle mani del Parlamento.

Salerno ha insistito sul fatto che la Corte non abbia bocciato la proposta, anche perché – ha ricordato – il suicidio medicalmente assistito, e quindi la possibilità di autosomministrarsi il farmaco letale, era stato già ammesso dalla sentenza n. 242 del 2019. Rimane e rimane ancora da regolarizzare il caso di pazienti che non sono nelle condizioni fisiche di compiere, in modo autonomo, il movimento che permette di assumere la sostanza letale. E’ necessario, in questi casi, l’intervento di qualcuno che renda concretamente possibile attuare la decisione di porre fine alla propria vita, e questo qualcuno va scaricato da ogni responsabilità penale.

Sul tema del fine vita si fronteggiano due visioni differenti, quella laica e quella religiosa, per lo più cattolica, con la Chiesa che, con il proprio ‘no’, “è entrata a gamba tesa sulla questione”, dice Salerno. Per conciliare le esigenze sia di chi considera l’autodeterminazione individuale prevalente sul diritto alla vita sia di chi, viceversa, considera il diritto alla vita prevalente su quello all’autodeterminazione, Salerno ritiene opportuna la proposta che venga nominato un amministratore di sostegno, così come avviene nel caso di chi non è in grado di intendere e di volere (art. 404 del codice civile).

La nomina, richiesta dall’infermo immobilizzato ma capace di intendere e di volere, oppure da un suo parente stretto, sarà effettuata dal giudice tutelare che, in presenza dei necessari requisiti, garantirà che il consenso non sia stato estorto. Salerno si dichiara insoddisfatto anche del termine ‘suicidio’ che, a suo parere, è più adatto ad esprimere una scelta soggettiva, motivata da accadimenti personali di varia natura, mentre il termine ‘fine vita’ segnala una situazione oggettiva che crea condizioni vissute come inaccettabili.

Dei suoi vent’anni di pratica medica con pazienti senza possibilità di guarigione, ha parlato il dottor Antonio De Agostino, specialista in cure palliative. La “medicina palliativa – ha detto – è un’altra medicina, in cui sono convolti non solo il medico e il paziente, ma anche lo psicologo, il fisioterapista, l’assistente sociale, da una parte e tutto il nucleo familiare dall’altra”. L’équipe di cure palliative, infatti, si fa carico del paziente terminale in senso globale, da tutti i punti di vista. Se ne “prende cura”.

Anche la legge, del resto, afferma che “il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura”. Ecco perché – ha proseguito D’Agostino – non è detto che, per la cura palliativa, serva un farmaco, “può servire anche soltanto ascoltare”. Questo entrare nelle corde del paziente, così come il sostegno della famiglia, fa sì che più difficilmente l’infermo voglia morire. E in effetti, sulla base della sua esperienza, “sono pochi coloro che vogliono morire”, così come sono pochi quelli che scelgono la sedazione profonda, utilizzata, in genere, in presenza di sintomi definiti “refrattari” come dispnee gravi, emorragie, delirii.

Il permanere della volontà di vivere nei pazienti terminali è stato testimoniato anche dal frate francescano Antonio Vitanza, che – nel suo intervento – ha affermato: “nella mia vita di religioso, non ho mai incontrato una persona che invocasse la morte. Tutti volevano continuare a vivere fino a che fosse possibile”. Anche in casi estremi, come quelli da lui incontrati nei reparti Covid di terapia intensiva. Dopo aver rivendicato il diritto della Chiesa a dire, su questo tema, la propria parola, che non può che essere una parola di vita, ha anche sostenuto che la Chiesa si esprime sempre nel rispetto non solo per la sofferenza, ma anche dei punti visti contrari, senza mai forzare la mano. Affermazione che ha suscitato qualche composta e sommessa reazione di perplessità, rimasta a livello di tentennamenti del capo, essendosi l’incontro concluso in assenza di dibattito.

Il problema a noi sembra che non debba essere posto sul piano quantativo. Chiunque si attivi per permettere a chi lo voglia di porre fine ad una vita di sofferenze insopportabili, non intende certo invitare i malati terminali a compiere una scelta così radicale. Vuole solo consentire a coloro che volessero autodeterminarsi in questo senso, di farlo senza dover ricorrere ad aiuti ‘clandestini’ o incorrere nei rigori della legge.

Argo

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  • In data 19 novembre 2019 (quindi quasi due anni dopo l'entrata in vigore della legge) sono andata con una mia amica di cui sono fiduciaria, come lei lo è di me, a depositare presso l'ufficio preposto dell'anagrafe cittadina, le mie Disposizioni Anticipate di Trattamento.
    L'ufficiale dello stato civile della Direzione servizi demografici ci confessò che eravamo le prime persone ad averlo fatto.
    Ancora più stupefacente che anche i rispettivi medici di base fossero assolutamente impreparati e che, dopo una verifica fatta a distanza "di anni", non risultassimo ancora caricate nella Banca Dati centrale...

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