Inatteso, è arrivato il secondo manoscritto di Vincenzo Rabito, Il romanzo della vita passata, adattato dal figlio Giovanni, pubblicato da Einaudi.
In Terra matta, il primo manoscritto, si sentiva l’urgenza del raccontare, la fatica quotidiana e immane di un uomo semianalfabeta che ogni giorno, in vecchiaia, si siede e fissa i 43 tasti di una Olivetti lettera 22. Per anni sta seduto in uno stanzino a litigare con la lingua italiana, aiutato solo da tanta ostinazione e una memoria prodigiosa nel ricordare, veramente, tutto: i nomi dei soldati con lui al fronte, l’esatto numero di lire che guadagnava da bambino, le strade, gli uomini con i quali s’era odiato per tutta la vita, contadini, appuntati, generali e baroni.
Terra matta era, oltre che una grande testimonianza e una storia avvincente scritta in un linguaggio particolarissimo, un tentativo di salvare dall’oblio e dal non-senso, una vita davvero “maletrata e desprezata”: Rabito cercava, in Terra matta, prima ancora che di raccontare agli altri, di chiarire a sé stesso, con sincerità assoluta senza infingimenti e veli retorici, lo svolgimento imprevedibile, sincopato di un’esistenza cui voleva dare significato e dignità.
Colpisce che spesso l’autore, nominando per la prima volta un personaggio, lo chiami, come in un appello, “Orlando Mario”, “Messina Calogero”. Come a fare la conta, come se, prima ancora che raccontando ma solo nominando, egli potesse dare un senso a ciò che gli è toccato di fare e di vedere. Se è valida la distinzione pirandelliana fra scrittori di cose e di parole, Rabito allora sta miracolosamente nel mezzo, perché la sua parola, primitiva e selvatica, efficacissima, sa di materia, emerge come nuova, carica di una potenza misteriosa, nuova, impacciata ma solida ed efficace.
Il secondo manoscritto è tutto diverso: Rabito racconta nuovamente la sua vita, ma, come tutti i grandi cantastorie, in questo secondo “cunto” aggiunge, taglia, si dilunga: è una seconda versione più articolata, più picaresca. Sottolinea giustamente Giovanni Rabito nella prefazione che lo stile si fa più “fluido, attento, accurato nei dettagli”, quasi sia scomparsa un’urgenza, come se Rabito, ormai sgravato dal compito di scrivere la prima volta, si lasci andare più distesamente al puro gusto del raccontare.
Gli episodi sono gli stessi, ma raccontati da un’angolazione diversa, meno dentro le cose, meno recriminativa in un certo senso, non più addolorata, talvolta sdegnata e rancorosa come in certi brani di Terra matta, ma quasi sempre divertita: il piacere della peripezia che, alla fine, si risolve bene, anche con un uso compiaciuto della furbizia, “vedrete, adesso, come ne esco!”, sembra ridacchiare l’autore.
A dare il tono al libro sono infatti i capitoli finali, assenti in Terra matta, che trattano gli ultimi dieci anni di vita di Rabito, dal 1970 al 1981. Acciacchi a parte, è il periodo più felice della sua vita: è un uomo ormai risolto, non più assillato dal pensiero di procurarsi denaro per sopravvivere, i figli ormai grandi, sistemati, l’odiata suocera morta, un matrimonio infelice ma rassegnato e ammansito da anni di convivenza. Ormai anziano, compie diversi viaggi, di piacere, nei luoghi della guerra, in Veneto, e a Roma, e soprattutto resta memorabile la gita improvvisata a Bologna, da “Ciovanne, che per me era chiamato «il figlio più lontano»”.
Sono pagine meravigliose, in cui un Rabito vecchio-bambino, restituisce l’eccitazione per un viaggio imprevisto, lo stupore che prova in una città nuova, ricca; e l’orgoglio di essere accolto, finalmente legittimato, in una famiglia, tra “le più meglio famiglie di Buolognia”, i parenti di Giuliana, la compagna del figlio; la bonaria canzonatura impastata di una diffidenza tutta paesana che traspare per Fernanto, il padre di Giuliana, il quale aveva la mania di fermarsi di bar in bar pagando tutto di tasca sua: “Don Vincenzo, perché se deve incostiare? … perché non lascia pagare tutto a questo signore?… che non lo vede che ene ricco, che li solde ci pareno musche, di come li spente!”.
Leggendo e rileggendo viene voglia di conoscerlo questo “sencolare uomo” che ha attraversato un secolo di storia italiana, dal misero mondo contadino che è quello dei nostri avi, alle due guerre mondiali, dal fascismo all’avventura coloniale, l’emigrazione in Germania e il boom economico: una testimonianza non solo preziosa, ma anche beffarda, se si pensa che per anni i critici (militanti e non) si sono rotti le teste a vicenda su che davvero fosse “la letteratura popolare”, e come si dovesse rappresentare questo benedetto “popolo”, ed ecco che un giorno spunta fuori dal profondo della Sicilia la Storia scritta dal basso, da uno dei vinti.
L’opera di Rabito è stata definita fulmineamente “l’anti-Gattopardo”, e davvero la mente corre al confortevole studio del principe di Salina, al suo colloquio col piemontese Chevalier, in cui si fustiga l’indolenza e l’irredimibile incapacità di cambiare dei siciliani: “I siciliani sono dei”, “In Sicilia non importa far male o far bene: il peccato che noi Siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di ‘fare’”, sentenziava Lampedusa. Rabito, che “per natura, stava sempre arrabiato, perché li solde non ci n’erino piú”, doveva essere un dio ben strano (bestemmiatore tenace, per di più) e operoso fino a rompersi la schiena, lui, come migliaia di altri meridionali in giro per il mondo a costruire fortune altrui.
Chi lo sa, se, magari fra qualche decennio, alla Sicilia da cartolina del Gattopardo&derivati, assolata e immobile, che tanto fa vendere, di cui la tv è ingombra, si affiancherà (magari a scuola) anche l’epopea di Rabito. Dopotutto è il secolo breve visto dal basso.