E’ rimasto sullo sfondo il discorso sul Ponte sullo Stretto nel colloquio tra il giornalista Antonio Ortoleva e l’ingegnere ambientale Federico Maria Butera, professore emerito al Politecnico di Milano, sul format ‘Mezz’ora con’ dell’Associazione Memoria e Futuro, che si può riascoltare a questo link.
Butera ha messo in chiaro, fina dall’inizio, che non avrebbe affrontato il problema stutturale del progetto di Ponte, né quello del rischio sismico o dell’impatto ambientale marino, tutti temi specifici su cui devono esprimersi gli specialisti di settore, strutturalisti, sismologi, ecologi marini.
La sua bocciatura del Ponte sembra inizialmente essere di natura economica, visto che il professore considera non conveniente la costruzione di una struttura così costosa nel momento in cui le previsioni sul traffico di veicoli, merci, passeggeri che dovrebbero attraversarlo sono in netto calo.
Anche se dovesse esserci un incremento dei trasporti ferroviari, a suo parere basterebbe progettare un sistema efficiente di traghetti che costerebbe meno e darebbe stabilmente lavoro a un maggior numero di persone.
La logica che sottende a questa analisi non è, però, di tipo economico ma ambientale, anzi culturale.
Butera utilizza il punto di vista del Green Deal, il Patto Verde europeo che anche l’Italia ha condiviso e che si fonda su una serie di pilastri come la difesa della biodiversità, il primato delle fonti rinnovabili e, soprattutto, l’economia circolare. “Non possiamo continuare ad estrarre risorse, trasformarle e buttarle via – afferma Butera – è un approccio che ci ha portato al disastro ambientale e a tutte le conseguebze che ben conosciamo”.
Che fare, allora? Non si tratta di individuare risposte parziali o soluzioni tampone: bisogna cambiare modello di sviluppo, e quindi mentalità.
“E’ una rivoluzione”, afferma lapidario Butera. Dobbiamo imitare la natura e realizzare prodotti che non vengano solo costruiti con minime emissioni di gas serra, ma siano anche durevoli, riparabili, trasformabili e da cui, in ultimo, si possano ricavare materie prime da rimettere in gioco. E’ questa l’economia circolare, la fine dell’usa e getta, il passaggio dalle centralità della produzione a quella della manutenzione.
Con la conseguenza che ci saranno in circolazione meno prodotti, meno magliette da indossare, meno automobili in circolazione, meno bisarche per trasportarle in giro: quindi meno autoveicoli, merci e passeggeri che hanno necessità di attraversare lo Stretto. Una dimuzione del 40% del parco di autoveicoli è, del resto, prevista da uno studio del governo (2021) all’interno della strategia italiana per la decarbonizzazione da effettuare entro il 2050.
“Chi ci indurrà a questo cambio di visione?” chiede Ortoleva. La risposta di Butera è secca: “i disastri che si stanno già verificando”, e cita il Po in secca e la pianuta padana che non produce più.
Ma i disastri maggiori – prosegue – colpiscono soprattutto le popolazioni meno responsabili delle emissioni di gas serra, che sono la causa principale del cambiamento climatico. La siccità nel Corno d’Africa, le alluvioni in Pakistan sono il prezzo pesantissimo pagato dai 4 miliardi di persone più povere che contribuisce solo all’1% dell emissioni.
Sono responsabili del 52% di emissioni i paesi ricchi, Stati Uniti ed Europa in testa, che vorrebbero fermare fuori dalle proprie frontiere i migranti che arrivano, spinti dalla fame che aumenterà proprio per effetto del riscaldamento climatico.
Alla domanda se sia possibile prevedere quando il disastro ambientale arriverà al punto di non ritorno, la risposta del professore, molto articolata, si potrebbe riassumere con un “anche domani”. Come tutti i sistemi complessi, formati da sottosistemi interconnessi – spiega – anche la Terra, sottoposta a forti sollecitazioni può collassare improvvisamente invece di deformarsi gradualmente. E la spirale iniziata è già drammatica: ce lo dice lo scioglimento del permafrost che, liberando metano, un gas serra 30 volte più potente dell’anidride carbonica, ha avviato un aumento delle temperature più rapido di quello che abbiamo finora immaginato.
Per non proseguire in questo percorso senza ritorno, l’unica risposta possibile è il cambiamento dello stile di vita, “l’abolizione del consumo parossistico in cui siamo immersi”. La parola d’ordine a cui fare riferimento è, secondo Butera, la sobrietà o, se si preferisce, la temperanza, un valore che ritroviamo anche nella cultura classica e in tutte le religioni.
Le nuove generazioni, a cui dobbiamo trasmettere questi valori, sono pronte a mobilitarsi. Proprio quei giovani ai quali stiamo sottraendo risorse che, in realtà, non sono neanche nostre perché le “abbiamo ricevute in prestito dai nostri figli”, come recita un detto attribuito ai nativi americani.
Una lezioni di vita che va molto al di là della questione ‘Ponte sì, Ponte no’.
E’ il mio pensiero da decenni. Il Master universitario biennale di secondo livello , inter-universitario e internazionale, “Il Progetto di Riciclo: Architettura, Arti Visive, Design”, era stato concepito non a caso a partire dai problemi scottanti del polo petrolchimico della costa siracusana e gelese.
La filosofia di fondo era quella di orientare a risolvere gli inconvenienti in atto educando a concepire un modello di consumi e, quindi, di produzione connesso ad una diversa idea di sviluppo e di progresso. Necessariamente un’idea regressiva agli occhi dei molti resistenti e miopi.
Non posso che compiacermi del fatto che ci siano pensatori che mettano in campo le proprie competenze al servizio di quella fase basamentale rispetto alle azioni: il progetto di mondo, consapevole e responsabile