A due anni dalla scomparsa di Tony Zermo, il direttore de La Sicilia ha scritto un commosso ricordo del collega, sottolineando come Zermo abbia rappresentato un “maestro di penna e di vita per il giornalismo e per generazioni di giornalisti, cresciuti poi per proprio conto ma portandosi dietro la sua brillantezza, il suo fiuto per la notizia, la sua passione per questa bellissima e fottutissima professione”.
Dei morti non si dice che bene, così recita un antico e saggio detto. Ed è giusto così. Ma allo stesso tempo il ruolo che Zermo ha svolto sul ponte di comando della città, al fianco di Mario Ciancio Sanfilippo, è troppo serio per essere avvolto in una indistinta mozione degli affetti. Gli articoli di Toni Zermo hanno rappresentato un sostegno incessante alla rendita fondiaria e alla speculazione edilizia, a quell’infinito ciclo del cemento che ha devastato la nostra città.
E’ stato il più fervente amico dei cavalieri del lavoro, ha tenacemente occultato l’esistenza della mafia a Catania, prima negandone perfino l’esistenza e dopo offrendone una lettura grottesca e fuorviante. Ha preso parte, così come messo per iscritto dalla magistratura, ad autentici tentativi di depistaggio per screditare Maurizio Avola, il pentito che darà un contributo determinante nello scoprire il mandante (Nitto Santapaola) e gli esecutori (Aldo Ercolano) dell’omicidio di Pippo Fava, di cui Zermo si diceva, oltre che collega, amico.
Qui basta ricordare che il 6 gennaio del 1998, a ben quattordici anni da quel terribile assassinio, non ebbe esitazioni a deturpare il corpo e lo stesso ricordo di Pippo Fava scrivendo una delle pagine più buie del giornalismo italiano: “C’erano una volta i cavalieri del lavoro di Catania. Erano il fiore all’occhiello della città. Erano talmente potenti e così strettamente legati a esponenti politici di importanza nazionale da attirare ammirazione e non solo ammirazione, ma anche invidia, tanto che qualcuno negli anni bui li soprannominò i quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa come se i mali della città dipendessero da loro”.
La straordinaria opera di disvelamento compiuta da Fava ridotta a mera invidia. Sono parole che bruciano ancora e che non possono essere dimenticate. Fanno parte della storia della città, ne hanno segnato il cammino. Se non si fanno i conti con questo tipo di “eredità”, il passato non passa e lo stesso giornalismo catanese è destinato a ripercorrere errori ed omissioni
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