Tra i numerosi lavori di Francesco Giuffrida, studioso di canto popolare e sociale, vi è la ricostruzione della storia di una canzone degli zolfatai siciliani. Del suo testo, molto articolato e ricco di riferimenti e citazioni, pubblichiamo una nostra libera riduzione.
Alberto Favara, compositore e docente di musica (Salemi 1863 – Palermo 1923), raccolse, per tutta la Sicilia, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento più di mille canti, trascrivendone fedelmente gli spartiti.
Tra gli ‘informatori’ di Favara troviamo personaggi insospettabili: il poeta e commediografo Nino Martoglio, i capocomici Angelo Musco e Giovanni Grasso.
In particolare, Giovanni Grasso gli fa conoscere una sestina di Caltanissetta, cantata alla maniera degli zolfatai, con un suono rimarcato alla fine del verso detto ‘ncasciata’. Eccola:
Caltanissetta fa quattru quarteri,
la megghiu giuvintù li surfarara.
La duminica su tutti ccu dinari,
a lu luni a la pirrera hanu a calari.
C’un tintu pani e n’afflitta lumera
tutta la simanedda hannu a passari.
Caltanissetta fa quattro quartieri,/ la meglio gioventù gli zolfatai./ La domenica sono tutti con denari,/ il lunedì in miniera devono scendere./ Con pane scadente e un povero lume/ tutta la settimana devono passare.
Lombardo, un attore della sua compagnia, gli comunica invece l’esistenza di quattro versi di un rarissimo Canto di lavoro di zolfatai ( n. 370) a cui Favara pospone una nota molto importante: “Alla fine di ogni frase tutti fanno forza con un suono gutturale staccando il minerale”.
Ecco allora la famosa ‘ncasciata‘, un modo di cantare che, nato dai gesti lavorativi degli zolfatai, è diventato caratteristica di una zona. Ed ecco il testo del canto
Ccà sutta ‘nta ‘stu ‘nfernu puvureddi
nui semu cunnannati a tirannia.
A manu di li lupi su’ l’agneddi,
ciancitini, cianciti, mamma mia.
Qua sotto in questo inferno poveretti/ noi siamo condannati a subire tirannia./ In mano ai lupi sono gli agnelli,/ piangeteci, piangete, mamma mia.
Favara riesce a pubblicare questo canto in due raccolte, del 1907 e del 1921, con la Ricordi di Milano. Successivamente Giuseppe Ganduscio, negli anni Cinquanta trasferitosi a Firenze, ritrova questi canti, li integra, li reinterpreta, li diffonde.
Nel numero 3 della serie Canti del lavoro, pubblicato nel dicembre del 1964, possiamo ascoltare Ccà sutta ‘nta ‘stu ‘nfernu; una registrazione artigianale eseguita da Ganduscio a casa di amici.
Dopo la prematura scomparsa dell’esecutore, il curatore della serie – Roberto Leydi – utilizzò il nastro registrato in una serata tra amanti del canto popolare. E l’ascolto ci riserva una bella sorpresa, perché i versi sono diventati otto: Ganduscio aggiunge ai quattro pubblicati da Favara altri quattro versi, da lui raccolti a Ribera. Eccoli:
La tirannia li carcagna ncarca
ah! l’abusu e lu putiri strica e curca.
E si accussì nni secuta la varca
ah! megliu ca ni nni jssimu a la furca.
Ovviamente appartengono a un’altra ottava, la rima alternata è cambiata; ma la presenza del termine tirannia assieme a una notevole unità espressiva e di contenuto, è un invito troppo forte a cui Ganduscio non resiste.
Pochi anni dopo la morte di Giuseppe Ganduscio il suo repertorio passa a Rosa Balistreri; e A tirannia farà parte stabilmente di questo repertorio. Ma con un’altra novità: il canto eseguito da Rosa arriva a 12 versi che mantengono la rima alternata arca/urca, segnalando l’origine in comune coi primi quattro versi.
Infatti troviamo l’intera ottava in Canti popolari siciliani, raccolta pubblicata da Salvatore Salomone-Marino nel 1867 e poi nel primo volume dei canti popolari raccolti da Giuseppe Pitrè (1870). Ecco l’ottava completa:
La tirannia li carcagna ncarca
l’abusu e lu putiri strica e curca.
Ca ogni nazioni ca sta terra sbarca
si diverti cu nui sempri a la turca.
Sempri lu circu nfrunti nni rincarca
a biviri ni tocca amara urca.
E si accussì nni secuta la varca
a megliu ca ni nni jssimu a la furca.
La tirannia affonda i calcagni/ l’abuso e il potere sfruttano e annientano./ Ogni nazione che questa terra invade/ si diverte con noi sempre alla turca./ Sempre continua a colpirci in testa/ e ci tocca bere da un’amara pozza./ E se così continua ad andare la nostra barca/ meglio per noi finire sulla forca.
Tornando al volume del Pitrè, dedicato ai canti popolari, dobbiamo notare che la canzuni non è inserita in mezzo agli altri canti – circa 1000 – raccolti, ma figura nella prima parte della pubblicazione dove l’Autore ripubblica il suo ‘Studio critico sui canti popolari siciliani’ del 1868, ampliato e con lievi ritocchi.
Ed ecco come Pitrè presenta l’ottava: ‘Amara suona questa canzone politica, oscura per le allusioni che fa, ma bellissima per nerbo, immagini e rime difficili.’
Come fa il Nostro a trovare oscure le allusioni del canto – osserva Giuffrida – non riusciamo a capirlo; per mantenerci nel solo Settecento la Sicilia vide arrivare i Savoia (1713 – 1720) e poi gli Asburgo d’Austria (1720 – 1734) seguiti poi dai Borbone fino all’Unità d’Italia. E una delle caratteristiche delle nuove dominazioni era un’immediata tassazione che pesava su tutta la popolazione siciliana, ma che sul popolo minuto diventava vero e proprio affamante latrocinio. Visto che il canto era popolare già negli anni Sessanta dell’Ottocento non è peregrina l’ipotesi di cercare nel secolo precedente le radici di quel tremendo distico:
Ogni nazioni ch’a sta Terra sbarca/si diverti cu nui sempri a la turca.
Ma, allusioni a parte, il valore di questo canto e di quello che risulta dall’unione con la quartina pubblicata dal Favara, crediamo sia grandemente rappresentativo delle condizioni di vita delle classi subalterne nella nostra Isola in tempi non molto lontani.