Per ridurre la dipendenza dell’Italia dal gas naturale russo, il governo ha ritenuto opportuno sboccare il rilascio di nuove concessioni alla ricerca di giacimenti da sfruttare per il nostro fabbisogno.
Può sembrare un’idea brillante, ma rischia di essere non solo un flop ma anche un autogol.
La quantità di gas presente nel nostro territorio, per lo più in mare aperto, al largo delle nostre coste, è molto piccola: vale la pena mettere a repentaglio le nostre coste per avere dei vantaggi quanto meno incerti e davvero irrisori?
Abbagliati dalla prospettiva di chissà quali ricchezze inesistenti, rischiamo di distruggere un patrimonio reale, una risorsa certa, che purtroppo già danneggiamo con i comportamenti scorretti, dagli scarichi contaminanti al cattivo funzionamento dei depuratori.
Questa risorsa è il nostro mare, ricco di biodiversità, fonte di attività economiche come la pesca e il turismo, soprattutto il turismo perché la pesca ce la siamo in buona parte giocata. Le nostre spiagge, i nostri panorami sono di grande bellezza anche quando il mare non è pulito come dovrebbe.
Le trivellazioni ne devastano biodiversità e bellezza, lo inquinano. E, soprattutto, non giovano al paese perché il gas estratto arricchisce solo le compagnie che perforano i fondali marini e diventano proprietarie del gas estratto, libere di venderlo, a prezzo di mercato, a chi vogliono, anche all’Italia se lo ritengono vantaggioso.
Vale anche per l’Eni, nata come ente pubblico, ma divenuta, dal 1992, una società multinazionale come le altre, anche se lo Stato ne detiene il 30% e ha mantenuto alcune prerogative di controllo.
Allo Stato vengono pagate solo le royalties, che – in Italia – ammontano ad una percentiuale bassissima, il 7%, del prodotto estratto e solo per la quantità che supera la franchigia, una soglia di 80 milioni di mc. Se la società mantiene l’estrazione al di sotto di questa soglia non deve pagare nulla. Ed accade molto spesso.
E nessuna percentuale è dovuta sul gas estratto in fase di ricerca, operazione non dissimile dalla normale produzione, ma con minori cautele per l’inquinamento dei fondali. Quanto meno bisognerebbe riformulare i contratti di concessione, ma questa non sembra essere mai stata una preoccupazione dei nostri governanti. Per esempio si potrebbe adottare il modello della Norvegia, che dai concessionari riceve il 78% del valore del petrolio estratto.
Allo stato attuale, il vantaggio per noi cittadini è quasi nullo, ma i rischi di incidenti ed il costo dei danni dovuti agli sconvolgimenti del territorio, anche solo in fase di ricerca, ricadranno tutti su di noi. E per molti decenni a venire.
E non è ancora tutto. La cosa più grave viene taciuta: al di là di proclami e promesse, il gas presente nel nostro territorio è pochissimo.
E’ questo il motivo per cui, da alcuni anni, le trivellazioni sono ferme. Non sono stati gli ambientalisti, con le loro azioni di contrasto, a fermarle. E’ venuto a mancare l’interesse economico da parte delle compagnie che hanno capito che il gioco non vale la candela.
Il fatto che si vedano ancora diverse piattaforme non lontane dalle nostre coste non deve trarci in inganno, per lo più sono in disuso e non smantellate come è obbligo dei soggetti. Ma i costi della dismissione delle piattaforme giunte a fine vita ammontano a diverse centinaia di milioni di euro e sono a carico dei gestori, che avrebbero dovuto metterli in budget. Anche l’impatto ambientale della disattivazione è una questione spinosa, che al momento tralasciamo.
Altra menzogna della propaganda governativa è quella sui tempi. Sembrerebbe quasi che il nostro gas fosse lì pronto nell’immediato ad essere immesso nella rete, e non è affatto chiaro che sarebbero necessari almeno due anni per poterlo utilizzare.
Buona parte dei concetti fin qui esposti, che da anni sosteniamo e diffondiamo, sono espressi in modo colorito ed efficace da Andrea Moccia su Geopop in un video dal titolo “Scorreggine di gas”