Oggi si fa una gran parlare del diritto dei popoli all’autodifesa, sollecitati come siamo dalle vicende della resistenza ucraina, ma spiace osservare che la stessa attenzione non sia riservata ad altre situazioni simili non meno incresciose.
E’ il problema che, implicitamente, solleva – sul sito Cultura e Libertà – l’articolo di una giornalista israeliana, Amira Hass, che vive in Cisgiordania, pubblicato in versione ridotta su Haaretz e ripreso da Internazionale (anno 29, n.1483 pp.63-66).
Silenziosamente, dal 1971, nella striscia di Gaza, le terre occupate sono state sistematicamente soffocate da nuovi insediamenti di coloni che hanno frantumato la continuità dei territori palestinesi con nuovi insediamenti ebraici che non intendono convivere con i precedenti abitanti della regione, vogliono semplicemente espellerli.
L’ Autrice osserva che “La frantumazione va oltre il proposito di ostacolare la creazione di uno stato palestinese”. E’ un abuso deliberato e istituzionalizzato nei confronti di cinque milioni di palestinesi che vivono in Cisgiordania e nella striscia di Gaza” (p65). In pratica la promessa di due Stati nella stessa regione è stata prima violata e poi vanificata.
Gli accordi di Oslo, alquanto vaghi per la verità, su questo punto sono stati una copertura sotto cui Israele ha continuato in modo sistematico ad appropriarsi delle terre dei contadini, dei cittadini palestinesi. Le discussioni sulle date e le scadenze, sulle porzioni di territorio da trasferire alla autorità palestinese, sul ritorno dei palestinesi sradicati nel 1967 nelle loro case, sul diritto all’acqua e sull’economia sono diventati altrettanti pretesti per rimandare quell’intesa che avrebbe potuto mettere fine allo stato di guerra permanente, ed alla continua umiliazione e discriminazione dei Palestinesi nella loro stessa terra.
La tecnica è semplice ed efficace: comincia con un ordine militare che mette le autorità palestinesi in condizione di non nuocere, si continua con l’espropriazione delle terre per esigenze militari(!); si impone ai palestinesi un divieto di costruzione e sviluppo; si creano grandi strade di collegamento fra gli insediamenti israeliani, si confiscano i campi ai contadini palestinesi, si vieta agli stessi (per motivi di sicurezza) di costruire vicino alle strade di collegamento o addirittura, per gli stessi motivi si vieta loro di andare a lavorare su ciò che resta delle loro proprietà. Infine si limita l’uso dell’acqua. E, ultimo ma non per importanza, si sostiene che i pascoli palestinesi siano terre “abbandonate” e dunque utilizzabili come si vuole.
L’Autrice osserva che anno dopo anno le cose peggiorano perché via via che il progetto si palesa ne appare tutta la disumana gravità, vengono prese di mira e negate “la proprietà e il reddito, la tradizione e la vita familiare, la possibilità di un’educazione, i legami sociali, la libertà di movimento, ogni possibilità di futuro”.
Vale la pena di leggere questo articolo, sarebbe difficile trovare una sintesi più completa delle vere difficoltà che impediscono una soluzione di pace in Medio Oriente. A meno che, per pace, non si intenda la pace eterna, per i contadini palestinesi ovviamente.
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