Nessuno, probabilmente, si è accorto che con la domenica del 25 settembre si è chiusa, se non un’epoca, certamente una stagione della Chiesa catanese: Pippo Gliozzo, parroco per 50 anni al Crocifisso della Buona morte, ha celebrato in parrocchia la sua ultima Messa.
Ma in cosa consiste la particolarità dell’avvenimento?
Nel fatto che padre Gliozzo è l’ultimo di una piccola schiera di preti catanesi che, per quanto formati al sacerdozio prima del Concilio Vaticano II, se ne sono lasciati attraversare, dallo spirito e dagli orientamenti concreti, e, una volta assunti incarichi pastorali, hanno cercato di realizzarli con creatività e inventiva, sia pure ognuno con uno stile e una misura del tutto personali.
I suoi compagni d’avventura sono stati Giovanni Piro ai SS. Pietro e Paolo, Concetto Greco al Pigno, Biagio Apa al Villaggio s. Agata, Pippo Di Bella a San Nullo, Gigi Licciardello a Zafferana.
Pippo Gliozzo è cresciuto come assistente dell’Azione Cattolica a Bronte, dove si era distinto per essere stato capace di creare un’unica associazione interparrocchiale e, da rettore del locale Piccolo Seminario, per averlo convertito in un più flessibile e aperto Centro vocazionale dove i ragazzi potessero trovare un punto di riferimento per maturare l’idea della vita come vocazione, non necessariamente al sacerdozio, dopo essersi reso conto che la maggior parte di loro, pur avendo la famiglia in paese, stava in seminario solo perché le sovvenzioni pubbliche (di Regione, Prefettura o Comune) permettevano loro di studiare con poca spesa.
Nel 1970 è chiamato a Catania per contribuire alla riforma del Seminario maggiore, tentativo, affidato alla guida di don Ciccio Ventorino, ben presto naufragato per l’ottusa opposizione di una consistente parte del clero.
Pur non avendo nessuna esperienza diretta di parroco, nel settembre del 1972 gli viene affidata la parrocchia del Crocifisso della buona morte, nella ex piazza Cappellini, ora Falcone.
Un quartiere, San Berillo, oggetto, negli anni Sessanta, di una sventurata operazione urbanistica di sventramento e presunto risanamento, peraltro mai portato a termine, che lo ha lasciato sociologicamente imbastardito avendo messo fianco a fianco una boriosa ‘city’ fatta di banche e uffici, condomini da ricchi borghesi, e superstiti frammenti del vecchio quartiere ‘a luci rosse’.
Un quartiere, insomma, ormai privo di una sua identità: i vecchi abitanti erano stati deportati in altre zone; i borghesi insediatisi nei nuovi condomini signorili non mostravano interesse ad interagire con la parrocchia; restavano solo contrabbandieri di sigarette, trans e prostitute. La stessa chiesa aveva rischiato di essere distrutta e, solo ad abbattimento iniziato, la Sovrintendenza si era accorta che forse non era il caso e aveva fermato lo scempio.
Per tanti preti quella nomina poteva significare un fallimento, ‘una prigione’, come ha riconosciuto lo stesso vescovo Luigi Renna, “ma quella che poteva sembrare una prigione, è divenuta un giardino”.
Il metodo? Molto semplice, per usare l’espressione che Gliozzo va sempre ripetendo: “Non ho mai pianificato scelte precostituite, mi sono sempre lasciato interrogare dalla storia”.
E poi, insieme, una sequenza di scelte pastorali inedite che avrebbero fatto del Crocifisso della buona morte una parrocchia del tutto originale.
Cancellata l’immagine di una chiesa come luogo di ritrovo per pensionati sfaccendati; via le tante statue di santi che riempivano l’unica navata, segno di una fede spesso deviata verso un superficiale devozionismo.
‘Parrini che fanno perdere la fede ‘, come mormoravano i vecchi parrocchiani, spiazzati da queste decisioni, o sacerdoti che la fanno ritrovare ad un livello più profondo e significativo per la vita?
Simbolo concreto di questo orientamento: la cappellina laterale dove si custodisce il tabernacolo, arredata secondo lo stile essenziale e pur sempre suggestivo di Charles de Foucauld, con sopra l’altare il Messale o la Bibbia sempre aperti alla pagina delle letture del giorno.
E quindi una catechesi per i ragazzi non immediatamente legata alla celebrazione dei Sacramenti e che comunque richiedeva con rigore la partecipazione attiva dei genitori alla vita della comunità. E’ appena il caso di dire che, per il giorno fatidico, si chiedevano festeggiamenti sobri e misurati e che, sia per questo che per gli altri sacramenti, non si chiedeva alcun contributo in denaro.
Per non parlare delle convivenze familiari a Cassone, delle scampagnate nella sua campagna a Bolo (tra Bronte e Cesarò), delle escursioni sull’Etna, di cui non era difficile cogliere la dimensione ascetica.
E infine ‘la porta, naturalmente sempre aperta’ per colloqui concordati o estemporanei, per un pranzo o una cena quasi sempre improvvisati, per una confessione o un confronto a cuore aperto.
Ma soprattutto aperta a ciò che caratterizzava da sempre il quartiere il quartiere: l’attenzione discreta e umanamente partecipe verso le donne delle ‘strade a luci rosse’, lungo le quali si faceva snodare la Via crucis del Venerdì santo, e dove si trovò un posto per leggere ogni settimana la Parola di Dio, attività oggi continuata dalle suore di Madre Teresa, che nel quartiere hanno la loro casa.
Porta aperta anche per i tossicodipendenti che, negli anni ’80, erano già un problema consistente. Gliozzo arrivò a pensare anche di aprire una comunità. Ne parlò con don Ciotti, che gli disse: “O fai il parroco, o dirigi una comunità”. Gli diede ascolto, non volendo limitarsi a una specifica tematica ma restare aperto a tutti.
Aperta anora verso la novità che segnò il quartiere, anche perché limitrofo al porto e alle stazioni dei treni e degli autobus, sempre a partire dagli anni Ottanta: la presenza degli immigrati. Ad essi, a un gruppo di senegalesi in particolare, fra i primi a Catania, venne offerto un luogo dignitoso dove dormire e preparare i pasti.
Quegli stessi locali, rivelatisi alla lunga comunque inadeguati allo scopo, furono successivamente ceduti in uso alla numerosa comunità ortodossa rumena presente a Catania che non aveva ancora un suo luogo di culto, e quindi trasformati in cappella.
E poi, ancora, la costituzione e l’accoglienza dei Fratelli dell’Elpìs, un gruppo di omosessuali credenti; la possibilità di utilizzare i locali per riunirsi data al gruppo catanese di Amnesty International.
Insomma un modo concreto per ripensare il ruolo della parrocchia come luogo di educazione alla fede come esperienza individuale e comunitaria e non come un supermercato di devozioni, un dispenser di sacramenti e un istituto parascolastico di catechesi: un modello non da replicare in fotocopia ma su cui riflettere per cercare di capire come potrà essere la ‘parrocchia del futuro’.
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Padre Gliozzo e gli altri sacerdoti con lui menzionati, tutti, vere perle della Chiesa catanese; una fortuna, o meglio, un dono, averli incontrati.
Auguro alla parrocchia del Crocifisso della buona morte e alla Chiesa tutta che l'eredità di padre Gliozzo sia accolta e valorizzata nello spirito della continuità e del rinnovamento insieme.
C'è bisogno di attenzione e ascolto, di Parola e di fatti; c'è bisogno di testimonianza amorevole perchè a nessuno manchi la percezione di quella cura che addolcisce la vita e dà a ciascuno il riconoscimento di esserci.