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Le elezioni, i giovani, il lavoro

L’argomento, il lavoro, è di quelli da far tremare le vene e i polsi, soprattutto in una città e in una regione del Sud come la nostra. Ed è anche il grande tema oscurato in una non-campagna elettorale come quella che si sta consumando in questi giorni, in cui i problemi non vengono sviscerati e discussi ma si procede per slogan preconfezionati.

Ci si avvia, infatti, a votare, nel migliore dei casi, sulla base di posizioni precostituite o di reazioni disperate dettate dallo sconforto. Nel peggiore dei casi, sulla base del pacco di pasta ricevuto sotto forma di buono benzina, o in base all’appartenenza al clan.

In questo panorama poco incoraggiante, un gruppo di giovani trentenni dell’associazione Disoccupazione Zero (che sta mettendo a punto una proposta di legge per rendere effettivo il dettato costituzionale sul lavoro) ha avuto il coraggio di organizzare, in una sede prestigiosa come Palazzo Platamone, un dibattito pubblico imperniato sulla domanda “Che fine ha fatto il lavoro?”.

Un confronto tra candidati dei vari partiti, chiamati a rispondere, a turno, a domande precise in tempi contingentati, sotto l’attento controllo del moderatore Davide Niki Cadili.

Non hanno partecipato al dibattito i rappresentanti delle destre, evidentemente poco interessati al confronto in una competizione di cui si sentono la vittoria in tasca. Erano, invece, presenti i candidati di Unione Popolare (Damiano Cucè), PD (Giuseppe Fisichella), M5S (Giusy Rannone), Italexit (Giuseppe Indorato).

Relatori per lo più giovani per un pubblico non da grandi occasioni, mediamente giovane anch’esso.

Senza tirare in ballo risposte originali o soluzioni innovative che nessuno si aspettava, i relatori hanno richiamato le proposte base avanzate dal proprio partito sul tema del lavoro, (“salario minino, contrasto al precariato e al lavoro nero per restituire dignità a chi lavora e garantire equità sociale e redistribuzione della ricchezza, tassando extraprofitti e redditi alti”, nel programma di Unione Popolare).

O hanno rivendicato quello che dal partito è stato già realizzato, come hanno fatto con competenza la candidata 5S Giusy Rannone e la ex ministra del lavoro presente in assemblea, Nunzia Catalfo: ad esempio, la misura del superbonus che ha rilanciato il settore dell’edilizia e promosso la riqualificazione energetica e sismica del patrimonio edilizio, in vista di una crescita dei posti di lavoro nel settore geen.

Pannicelli caldi per Indorato, candidato di Italexit, pronto a riproporre, ad ogni passo, la critica al modello neo liberista e globalista, a cui opporre il recupero della sovranità e l’autonomia monetaria, senza mai spiegare come sia davvero possibile svincolarsi da un pervasivo mercato economico-finanziario che, a livello mondiale, plasma i governi a suo piacimento.

Eppure nelle risposte non particolrmente innovative, o non sempre chiare, dei candidati più giovani, traspariva un’anima, c’erano persone vere.

Giovani preparati, padroni del linguaggio (cosa non da poco), chiari e appassionati nell’esposizione, come Cucè. Ma anche ragazzi orgogliosi della propria appartenenza alle periferie, contesti difficili entro i quali è possibile mantenersi nella legalità e impegnarsi a crescere culturalmente, anche “grazie ad un partito che mi ha dato spazio e mi ha formato” come ha dichiarato Fisichella, candidato di un PD che è stato continuo oggetto di attacchi nel corso del dibattito, ma è apparso, dalle sue parole, alla ricerca di una nuova fisionomia.

Ha toccato corde sensibili, in particolare, la domanda sulla scuola e sul rapporto scuola-lavoro. Non sono emersi solo i problemi concreti che rendono inadeguate le nostre scuole, dai tetti che crollano al tempo pieno che manca, e che è grave che manchi, soprattutto nelle periferie.

E’ emersa con chiarezza la visione di una scuola che deve soprattutto formare l’uomo, il cittadino, e non essere ridotta al ruolo di ente professionalizzante, una scuola che deve soddisfare la “fame di conoscenza e di sapere” (Fisichella) che viene anche dai ceti più disagiati, quelli che non sono messi nelle condizioni di avere adeguati strumenti di comprensione della realtà. Per questo nella scuola si devono investire risorse, “e non dite che non ci sono, basta sottrarle alle spese militari, perché la gente ha bisogno di sanità, di cultura, di arte, non di guerra” ha concluso Cucè.

Argo

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