Elvira Tomarchio, impegnata nelle attività della Formazione Professionale, ricordando un’esperienza di 15 anni fa si interroga sull’utilità di costruire percorsi di formazione integrati e sul perché una tale opportunità non sia stata coerentemente sviluppata.
La storia che racconto è quella di un percorso di dialogo ed integrazione tra sistemi educativi, formativi e mondo del lavoro che era stato intrapreso negli anni 2000 con la sperimentazione di corsi di formazione per tecnici rivolti a giovani diplomati. Si chiamavano IFTS e prevedevano la collaborazione tra scuole superiori, enti di formazione, Università e imprese.
Tra le figure individuate vi fu il Tecnico Superiore per i sistemi idrici, a cui ho lavorato come progettista e referente di progetto. Venne costituito un partenariato tra il liceo Boggio Lera, in qualità di capofila, l’ECAP Catania, Ente di Formazione professionale presso cui lavoravo, la facoltà di Agraria e alcune aziende del settore come la SIDRA e la Proteo.
Obiettivo generale era quello di favorire l’integrazione tra i diversi sistemi formativi attraverso modalità innovative quali la certificazione delle competenze acquisite, il riconoscimento dei crediti formativi e la loro spendibilità nel percorso universitario o per l’inserimento al lavoro
“Il tecnico per i sistemi idrici opera nell’ambito dei sistemi di approvvigionamento, adduzione e distribuzione delle acque, dei sistemi di raccolta, trattamento, riuso e smaltimento dei reflui, nonché dei sistemi per il loro riutilizzo anche ai fini della salvaguardia ambientale” come si legge nel profilo professionale, le competenze riguardano tutto il ciclo dell’acqua, dalla captazione fino allo smaltimento. tenendo ben presente le ripercussioni per l’ambiente
Perché il Ministero dell’Istruzione nel 2006 dedicò tutto il pacchetto degli IFTS a figure professionali afferenti all’ambiente? Perché allora scegliemmo di lavorare proprio sul Tecnico per i sistemi idrici?
Innanzitutto perché da poco era stato ratificato il protocollo di Kyoto, e a livello locale esistevano una serie di carenze: la minore disponibilità di acqua nella nostra regione, la crisi idrica che si manifestava periodicamente nella stagione estiva, inquinamento ambientale e delle falde idriche, la difesa idrogeologica del territorio, l’applicazione della Legge Galli e la costituzione dell’ATO IDRICO in atto proprio in quel periodo. Quest’ultimo organismo nasceva per garantire la gestione razionale delle risorse, la riduzione degli sprechi, incrementare il risparmio e il riuso dell’acqua.
Il corso della durata di 1200 ore, di cui 360 dedicati agli stage, fu svolto nel 2007, gli allievi grazie alla presenza di docenti universitari e di esperti delle imprese partner hanno ricevuto una formazione ampia e articolata, effettuando anche visite presso enti e imprese locali che gestivano i servizi idrici.
Lo stage realizzato presso un centro di ricerca di Trieste si è rivelato molto formativo ed intenso. Il CETA (Centro di Ecologia Teorica ed Applicata) era un’associazione senza scopo di lucro, riconosciuta dalla Regione Friuli Venezia Giulia, che svolgeva attività di ricerca, sperimentazione e progettazione di sistemi tecnologici innovativi nei settori ambientali Questa esperienza, svolta in full immertion, fu decisiva per comprendere la gestione di sistemi idrici integrati su scala di bacino, come il Bacino del Brenta o l’uso della fitodepurazione di acque industriali e civili.
Le piante possono dare una grande aiuto contro l’inquinamento. Proprio presso il Consorzio Adige- Bacchiglione abbiamo constatato l’efficacia della fitodepurazione operata dalla flora ripariale: le acque reflue provenienti dagli allevamenti della zona venivano convogliate verso una sorta di pantano, qui il flusso dell’acqua diventava quasi laminare e scorreva monto lentamente seguendo un percorso studiato appositamente per aumentare la permanenza delle acque e favorire lo scambio con le piante. Tutto ciò era nato per risolvere il problema dell’inquinamento delle acque dell’Adige che avevano provocato la eutrofizzazione del mare Adriatico, reso visibile con il fenomeno delle mucillagini.
La fitodepurazione era applicata anche nelle aziende industriali, persino una fabbrica che stampava tessuti, aveva realizzato un piccolo impianto, rendendo l’acqua che usciva dal sistema di fitodepurazione limpida e priva di residui di colore.
In Sicilia gli allievi hanno svolto diversi periodi di stage presso le aziende locali, per esempio presso il depuratore di Caltagirone, dove ogni giorno veniva controllata la qualità dell’acqua in uscita dal trattamento: depurata al 90 %.
Una cosa non ho capito: se le acque nere vengono depurate grazie al lavoro delle piante, come mai l’acqua che usciva quasi pura dal depuratore non poteva avere impieghi irrigui? Sembra che i parametri della Regione Siciliana fossero molto stringenti, motivo per cui l’acqua depurata era destinata ad essere sprecata.
Un simile “spreco” è avvenuto nel corso degli ultimi 15 anni rispetto allo stesso sistema della formazione tecnica superiore in Sicilia. Di fatto questa non esiste più, è diventata ITS; gli enti di formazione storici sono stati costretti a chiudere da una politica miope e truffaldina. Il CETA non esiste più così come alcune delle imprese, l’acqua rischia ancora una volta di essere privatizzata e i sistemi di depurazione sono insufficienti, basti pensare ai divieti di balneazione delle nostre spiagge che subiamo puntualmente ogni estate.
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