Gino Strada, la guerra è un'ingiustizia assoluta

Un libro per “tirare le fila di quello che ho visto e vissuto”, il libro che Gino Strada non trovava la “motivazione sensata” per scrivere e che, in questi giorni di metà agosto, in cui ricorre l’anniversario della sua morte, troviamo anche in edicola e possiamo acquistare “a sostegno di Emergency”.

Avevamo già assistito alla presentazione di “Una persona alla volta, ma abbiamo ripreso in mano volentieri questo libretto di 150 pagine in cui ritroviamo la sua esperienza di chirurgo di guerra, in un primo momento con la Croce Rossa Internazionale, fino all’idea ‘folle’ di creare una organizzazione che curasse i feriti di guerra anche in condizione di emergenza, Emergency.

Soprattutto abbiamo trovato attualissima, in queste pagine, la condanna netta della guerra in quanto tale, la guerra che è “ingiustizia assoluta, violazione irrimediabile di ogni diritto” anche quando viene scatenata per “fare giustizia e difendere i diritti umani” (p.53), la guerra che viene definita “uno strumento che non funziona”, neanche per abbattere un dittatore o reagire ad un genocidio, essendo di per sé “antietica”.

Per convincere della disumanità della guerra Strada non lancia appelli ma racconta le storie di chi “ha avuto almeno la fortuna di arrivare in un ospedale”, e ci dice “prendi la fotografia di un bambino afgano e, al posto della sua faccia, incollaci quella di tuo figlio”.

Quanto al tema ricorrente della salute per tutti, Strada ricorda che Emergency non solo ha sempre curato chiunque ne abbia avuto bisogno, anche i talebani in Afghanistan, ma ha avuto il coraggio di aprire un centro di cardiochirurgia in Sudan ed uno di chirurgia pediatrica in Uganda, perché, se è vero che in Africa “si muore di diarrea”, gli africani hanno diritto di essere curati anche per altre patologie, “esattamente come noi”.

E questi ospedali da lui fondati Strada ha voluto che fossero “scandalosamente belli”, perché per i “disperati bisogni” dell’Africa non è vero che qualsiasi cosa vada bene, bisogna portare non il “meglio che niente” ma il “meglio” e basta, magari chiedendo a Renzo Piano di progettare la struttura, come è in effetti avvenuto.

Non poteva mancare un riferimento ai vaccini, dei quali va garantita una distribuzione equa perchè “beni pubblici”, non di mercato, “alzando la voce contro le compagnie farmaceutiche” e sospendendo le regole che tutelano la proprietà intellettuale o la concessione di licenze ad altre aziende.

E soprattutto non manca una diagnosi della “medicina italiana” che “non sta bene”, se è vero che, come dice l’Istat, “quattro milioni di italiani hanno rinunciato a curarsi per ragioni economiche”

L’accesso alle cure gratuite, previsto dal Servizio Sanitario Nazionale nato nel 1978 – scrive Strada – è sempre meno garantito. Invece di investire sulla sanità pubblica, lo Stato “spende decine di miliardi nelle convenzioni” consentendo ad “imprenditori del settore di guadagnare sulla malattia dei cittadini”.

Chi voglia investire nella medicina, prosegue Strada, deve essere libero di farlo, ma contando sulle proprie foze ed assumendosi i rischi dell’impresa. E’ successo invece che “nelle strutture sanitarie pubbliche, i primari fanno corsi da manager, i direttori sanitari sono imprenditori, gli ospedali sono diventati aziende”, mentre risuona il mantra che ‘bisogna tagliare i costi’.

“Che senso ha – si chiede – parlare di denaro e profitto quando si ha a che fare con una persona che soffre?” (p.131). La domanda è retorica, con una soluzione a portata di mano: invece di definanziare il sistema sanitario pubblico, basterebbe cancellare i fondi destinati al privato o ridurre la spesa militare, che invece aumenta.

Da dove nasce in questo chirurgo, formato nelle migliori università, il senso di giustizia e di solidarietà?

La risposta sta nel primo capitolo del libro “Un buon posto dove diventare grandi”, in cui viene descritto il quartiere popolare di Sesto San Giovanni in cui Gino Strada è nato e ha trascorso la giovinezza, quello che veniva chiamato la “Stalingrado d’Italia”, con “le grandi industrie, gli operai, il partito, il passato partigiano”. Un contesto ben diverso da quello attuale, con Sesto lambito dai comitati d’affari marca Fratelli d’Italia (Biondani e Tecce, A chi la tangente? A noi!, Espresso 7 agosto 2022).

E, dentro il quartiere, la sua famiglia, una famiglia operaia, con il padre che lavorava alla Breda, la condivisione dell’appartamento con la zia, il marito e due cugine che li hanno ospitati per anni fino a che non hanno potuto permettersi di pagare un affitto. Una famiglia antifascista per ragioni molto concrete (“i fascisti ti tenavano d’occhio se la pensavi diversamente, i fascisti picchiavano, i fascisti avevano voluto la guerra”), una famiglia dentro la quale si respirava “etica del lavoro, responsabilità, senso di comunità”.

Argo

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